L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se c’è n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Così sentenzia Polo, in risposta alla provocazione del Gran Kan, nella chiusa de Le città invisibili. O meglio, così sentenzia Calvino, per bocca del suo personaggio, in una chiusa che è tale solamente dal punto di vista editoriale. Considerata la struttura del libro infatti questa frase può essere utilizzata un po’ come una chiave di lettura, come una lente attraverso cui guardare le istantanee delle più disparate città catturate da Polo nel suo viaggio, poliedrico cammino che l’autore ci invita a ripercorrere, giocando con noi tramite i suoi evocativi e simbolici racconti. Quella di Calvino però è una frase che non si esaurisce nel contesto narrativo, bensì ne travalica i limiti proiettandosi verso la sua, e la nostra, quotidianità. Quali allora le tematiche che emergono da una frase di tale potenza? Innanzitutto è ravvisabile una lucida capacità di analisi del proprio presente, un invito ad aprire gli occhi, ma ad aprirli davvero, su di un mondo che troppo spesso non riusciamo o non vogliamo cogliere, persi tra ciò che ci appare e ciò che crediamo vero, forse falsamente. Tutto è inutile – ci dice rassegnato il Kublai – se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. Polo replica con una concretezza graffiante al Kan, che non solo si lascia sopraffare dallo scenario infernale, ma che non riconosce di esservi totalmente immerso, proiettandolo in un apocalittico futuro. Quello di Calvino è dunque quasi un appello, ad ogni lettore e a ciascuno di noi, a riscuoterci e a metterci davanti al nostro presente, a quel non prevenibile inferno dei viventi, che è già qui. L’invito alla consapevolezza allora si trasforma in analisi di una soluzione duplice: perdersi inautenticamente in mezzo all’inferno, anestetizzarsi ancor di più e non farci più caso, oppure, con la ferma coscienza di essere gettati in questa dimensione infernale, acuire il nostro sguardo e trovare ciò che è estraneo a questo inferno, avendone cura, facendolo crescere, dandogli spazio. Ciò a cui ci mette davanti Calvino è, in definitiva, secondo la nostra opinione, una scelta individuale radicale: sei sufficientemente disilluso per mostrarti ciò che hai intorno? E se lo sei, ricadrai nella anestetizzata via dell’indifferenza oppure ti aprirai a quanto vale la pena di salvare? Vorrai tentare di dare spazio a ciò che inferno non è?