Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

Questo componimento di Montale (1896, Genova – 1981, Milano) si configura come parte integrante di quella che potremmo definire una svolta poetica che segna il cammino artistico dell’autore Novecentesco. Dopo anni di silenzio infatti il poeta torna a scrivere, rinnovando e rinnovandosi già dall’ambito stilistico. Nella raccolta Satura (etimologicamente “piatto che raccoglie vari cibi“, edita nel 1971, testi dal 1962 al 1970), di cui il componimento fa parte, possiamo individuare un abbassamento del tono, e appunto dello stile, che da aulico si configura in maniera decisamente più prosaica e colloquiale. Rispetto ai componimenti precedenti (ad esempio quelli raccolti in Ossi di Seppia) Montale predilige un focus incentrato più sull’intimità, sulla rivivicazione dei ricordi a lui cari sostituendo nel ruolo di soggetto poetico, nella fattispecie, la figura di sua moglie Drusilla Tanzi, soprannominata Mosca, morta nel 1963, alle donne simboliche cantate in precedenza. Ritornano però, anche in queste nuove raccolte, i temi di sempre, affrontati in ottica ironico-satirica, soprattutto per demitizzare le artificiose costruzioni del suo presente. Leggendo ora il componimento accompagnati da questa breve contestualizzazione storica quali spunti critici se ne possono trarre? Innanzitutto, come accennato, importante è il risvolto intimistico della nuova poetica Montaliana, ravvisabile anche nel componimento in oggetto: l’autore ripercorre i propri ricordi, mettendoci davanti con struggente malinconia l’importanza che ha nella vita di ciascuno di noi la dimensione degli affetti, tutta quella rete di nostre relazioni che viviamo nel quotidiano. Ed è proprio questa condivisione del quotidiano che manca al poeta, è proprio in questa semplice azione di tutti i giorni, lo scendere le scale, che prepotente ci colpisce il vuoto di questa assenza, che ogni gradino appesantisce. Montale qui vivifica un punto che non sempre consideriamo: quanto di noi è negli altri? Quanto, anche inconsapevolmente, l’Io si interseca, o addirittura si radica nell’Altro da Me? La risposta del poeta appare chiara tra le righe impregnate di struggente malinconia e disincantamento. Disincantamento che apre la seconda grande dimensione di senso della nostra analisi, riscontrabile nella poesia seguendo le parole appartenenti allo stilema della vista. Montale si discosta infatti da chi crede che la realtà sia quella che vede, presupponendo, o ponendo forse, l’esistenza di una dimensione che travalica il mero sensibile, dimensione che non appare come fenomeno ma che va oltre ad esso. E allora forse è anche questa la dimensione in cui si radica la relazione tra un Io e un così importante Altro da Me, in questa condivisione di un viaggio il cui orizzonte si configura al di là del sensibile, questo con-vivere ad un livello più viscerale e profondo, con la coscienza che, per vedere questo orizzonte, spesso il mero senso della vista non basta e che spesso è lo sguardo dell’Altro da Me, come dice Montale alla Mosca, che ci apre a questo vivere autentico e pregnante, fin dalla più piccola azione del quotidiano, fin da quell’apparentemente banale iperbole iniziale, quel “ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale”.