Nel best-seller dello zoologo ed etologo inglese Desmond Morris (Purton, 24 gennaio 1928)  “La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo” (1967) troviamo una veloce e brillante tesi sulla nascita della religione. Nel testo l’autore focalizza la questione intorno al “bisogno” biologico di alcune specie di primati superiori di avere a capo del gruppo un leader indiscusso. Questo bisogno è quindi anche interno all’Uomo (considerato dallo scienziato un primate) ed a causa del cambiamento, in un lontano passato, del suo stile di \vita- dovuto all’uscita forzata dalla foresta (non si sa per quale motivo, ma ci sono varie ipotesi)-,  non poté più permettersi di avere un capo perché tutti i maschi erano obbligati alla caccia, nessuno aveva privilegi. Per questo motivo l’essere umano, grazie anche alla sua capacità astrattiva, dovette inventarsi un Dio che serviva ad appagare l’istinto di sottomissione ma anche ad unire il gruppo.
Questa ipotesi scaturì soprattutto dagli studi sui primati da lui svolti, e per quanto possa apparire povera in realtà rivela un dato molto importante: l’appartenenza ad un gruppo. Infatti sappiamo che sin dall’antichità, e ne abbiamo testimonianze ancora oggi, gli uomini uniti anche in piccole società primitive tendevano, e tendono, a condividere delle superstizioni, un culto ed una religiosità. Studi sulla nascita delle poleis nella Grecia antica intorno all’VIII secolo a.C., ad esempio, hanno rivelato che i villaggi diventavano una polis non tanto quando gli individui si raggruppavano ma quando condividevano gli stessi dei, gli stessi riti e le stesse festività, oltre che creare spazi comuni come l’agorà e il Tempio, e condividere la stessa politica. Importante per la polis era, ad esempio, la partecipazione alle feste. Durante i sacrifici il cittadino Ateniese partecipava nel senso etimologico della parola perché aveva diritto a prendere un pezzo di carne dell’animale sacrificato, in latino partem capere, da cui deriva particeps e cioè “partecipe”. Ma le feste erano, e per lo più sono, sempre a scopo religioso; ecco che torniamo al punto della questione: la religione. Fin dall’antichità, più o meno consapevolmente, ha sempre funzionato come fattore unitario di una certa popolazione (che sia una tribù, un villaggio, una città, una regione o una nazione), o almeno così sembra. Esiste senza dubbio anche la religiosità individuale, ma è sempre facente parte di una “fratellanza” dove ogni individuo ha lo stesso Padre (o chi per loro leader indiscusso); infatti una religione, per essere tale, deve toccare un tetto minimo di fedeli.

La religiosità non ha però solo funzione unitaria ma dà anche indicazioni comportamentali. Come insegna anche Niccolò Machiavelli (Firenze, 1469- 1527), nel suo “Il principe” (1513), il capo deve, mentendo, far discendere le sue leggi direttamente dal divino. Infatti a me sembra che se i cittadini saranno uniti dallo stesso Dio ne obbediranno tutti le stesse Leggi. Anche oggi nei paesi più civilizzati e moderni, oltre alle leggi statali istituite dagli uomini, le persone tendono a comportarsi seguendo delle Leggi istituite dalla religione cui appartengono, ad esempio i “10 comandamenti”. E proprio queste Leggi assicurano la convivenza pacifica.
L’etologia, inoltre,  insegna anche, o almeno sostiene, che l’Uomo è un animale territoriale e che tende a sentirsi minacciato dagli individui facenti parti di altre comunità (non è forse un caso che uno dei modi per pacificare chi lotta è far focalizzare l’attenzione su ciò che si ha, e si è, in comune). Ma oltre a difendere il proprio territorio tende anche ad espandere i propri confini, così, quando una popolazione ne incontra un’altra, il conflitto intraspecifico sembra inevitabile. Ma se i conflitti appaiono certi, alcuni sono anche al massimo grado di brutalità, fino a sfiorare la follia:  le guerre religiose. Chi combatte una “guerra santa” lotta per una unità divina e non politica, e per delle Leggi divine e non umane. Retrocedere o pattuire con i nemici una resa od una tregua significa tradire il proprio Dio, la propria cultura e la propria moralità. Detto questo la religiosità può sembrare un male (sicuramente a volte pericolosa), ma in realtà a me appare più come una necessità naturale che nasce spontaneamente tra gruppi di individui sociali quale è l’essere umano. Anche una società non religiosa lo sarà in modo velato, in modo differente. Ad esempio, uno Stato che punterà tutto sulla scienza prenderà in maniera inconsapevole dei dogmi assoluti che serviranno per unire la comunità sotto un unico “credo” e culto.

A parer mio, in conclusione la Religiosità serve, e servirà sempre, ad unificare dando credenze, simboli, valori e momenti di vissuto comuni come feste, riti, ecc. Che in fondo erano, e sono, nient’altro che i tasselli naturali e basilari per formare le comunità umane.