Anche se in un primo momento l’accostamento di questi due stati – libertà e felicità – può sembrare appropriato fino ad un certo punto, possiamo pensare le due cose come fortemente dipendenti l’una dall’altra. Il punto è: per essere felici è necessario essere liberi? Ed essendo liberi è possibile essere felici? Insomma, come si intrecciano due valori per noi così importanti?
Vorrei avviare una riflessione in merito partendo da un’opera capitale della letteratura filosofica di tutti i tempi: la Repubblica di Platone. Se oggi alcuni aspetti di Platone possono farci storcere il naso, va detto che per essere un uomo vissuto due millenni e mezzo fa ci propone delle riflessioni di incredibile attualità, e può quantomeno fornire delle provocazioni interessanti. Certo, i suoi valori sono comunque legati alla cultura e alla mentalità del tempo (anche se mai quanto quelli di Aristotele, probabilmente), ma possono essere comunque riletti in modo più generale e adattati al nostro tempo e, quando questo non è possibile, offrono ugualmente spunti di grande interesse. Ad esempio, possiamo senza difficoltà trasporre il suo mondo delle idee, così difficilmente accettabile sul piano “concreto” nella contemporaneità demistificata, sul piano di una sorta di mondo di pure verità di valore puramente regolativo. Cioè: ammettiamo pure che esistano delle verità in quanto tali, verità assolute (ma se anche così non è, poco importa), e diciamo che l’uomo le ricerca ben sapendo di non poter mai giungere ad esse (l’uomo può essere filosofo, ma mai davvero sapiente, che è una cosa riservata agli dei), ma sapendo anche che nell’approssimarsi asintoticamente ad esse può “procreare nel bene”, per dirla con Trabattoni (cfr. F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma, 2009), ossia progredire comunque nella conoscenza, che manterrà il suo carattere imperfetto, ma sarà comunque meno imperfetta di prima, grazie ad un perfezionamento dialettico. Cosa, questa, che peraltro ci tornerà utile tenere a mente più avanti. Questo ci è abbastanza facilmente accettabile, ma ci sono aspetti del pensiero platonico che possono piacerci meno, specialmente in ambito politico.
Ed è qui che arriviamo al punto. La πολιτεία (Politeia, generalmente tradotta con Repubblica in modo forse non proprio felice, dal momento che la πολιτεία è la costituzione, la forma di governo, di cui si ricerca la forma migliore nel dialogo di Platone) è un’opera di capitale valore, in cui Platone espone in dieci libri la propria concezione politica (poi comunque ritrattata nelle Leggi) partendo da un’analogia tra città e anima umana: volendo definire che cosa sia la giustizia a livello etico, il Socrate platonico del dialogo propone di proseguire l’indagine sul piano “scritto a caratteri più grandi” della città, che si costituisce per analogia all’animo umano (tripartita, con una certa gerarchia e determinate virtù, per esempio), tant’è vero che alcuni studiosi sono convinti che tutta la digressione politica esposta dal secondo libro in poi sia in realtà solo una metafora del pensiero etico di Platone, e che quindi la πολιτεία sia un libro sulla giustizia, e non sulla città giusta e ideale. In questo senso Platone non avrebbe mai parlato di politica (non in quest’opera, almeno) e la Settima Lettera, in cui il filosofo greco fa della politica il suo primario interesse (quasi come se la filosofia fosse un ripiego), nonché il ruolo di formazione politica dell’Accademia Platonica, sarebbero tutte cose false. Al di là della fondatezza o meno di queste ipotesi, comunque già presenti in alcune letture medioplatoniche (e quindi molto antiche) dell’opera, Platone afferma nella Repubblica che i filosofi devono divenire governanti o i governanti devono divenire filosofi. Questo perché esiste un’idea del Bene nell’Iperuranio, ed essendo i filosofi coloro che riescono ad uscire dalla caverna in modo più efficiente e avere una pur vaga visione del Bene, sono gli unici che possono governare seguendo i dettami da esso derivati. Ed ecco che giungiamo finalmente al punto di difficile digestione di cui sopra: i filosofi conoscono il bene, quindi sono in grado di rendere giusta la città e felici le persone che la abitano. Il prezzo di questa felicità è la libertà individuale, dal momento che chiaramente le persone non possono fare quello che vogliono, se i filosofi devono regolare la città e gestire le persone secondo uno schema ben preciso per garantire il benessere a tutti! Ma che importa, se sacrifichiamo la libertà in favore dell’unica cosa che davvero interessa all’uomo, ossia la felicità?
Ma torniamo a noi. Siamo nel ventunesimo secolo, con una tradizione liberale di quasi mezzo millennio alle spalle, con una serie di brutte esperienze fondate sulla negazione della democrazia, con dei valori storicamente plasmati e sedimentati che è difficile ignorare. Per assurdo, oserei dire, oggi ci stupiremmo molto di più se una persona ci dicesse che non è giusto essere liberi, che non se ci dicesse che non è giusto essere felici. La felicità sembra quasi essere l’ultimo dei nostri problemi, ma non era così nell’Antica Grecia, in cui molte delle dottrine etiche erano eudemoniche, ossia incentrate proprio sul raggiungimento della felicità, la libertà non era in fin dei conti un valore in sé e la democrazia (che, non dimentichiamolo, era diretta) era spesso mal vista, in quanto governo dei poveri, di quei beceri ignoranti che sbraitavano in piazza anziché ascoltare le orazioni per poi controbattere civilmente. Platone si inserisce in questo contesto anti-democratico, e anche quando la elogia nella Repubblica lo fa ironicamente, e comunque la fa passare per un regime sostanzialmente anarchico: sì, la libertà democratica diviene anarchia incontrollata, disordine, tanto che è poi necessario un demagogo che prenda le redini in mano e che infine diverrà un leader idolatrato e assoluto, sancendo la degenerazione alla peggiore delle forme di governo per Platone: la tirannide. Non sorprende, dunque, che la felicità sia posta gerarchicamente molto più in alto nella scala dei valori antichi, rispetto alla libertà, ma pensare di sacrificare quest’ultima in favore della prima è anche vagamente accettabile per noi?
Vorrei partire a riflettere su questo quesito riportando una metafora che trovo particolarmente azzeccata: se ci dessero la combinazione vincente del Lotto, noi la rifiuteremmo? Perdio, no! E quindi perché dovremmo rifiutare la felicità, se ci venisse data? Forse perché il prezzo della libertà non è una cosa indifferente? Mettiamo anche che sia così, che la libertà sia davvero un valore e che sia il prezzo per la felicità. Ma la felicità dovrebbe essere per definizione ciò che più desideriamo, quindi aggiorniamo la metafora: ci danno la combinazione vincente, e in cambio vogliono un’ingente somma di denaro. Ma pazienza, gliela diamo, tanto sappiamo che vinceremo una somma infinitamente più grande grazie a quella combinazione, che importa? A cosa ci serve la libertà quando abbiamo la garanzia di essere felici? Certo, sul piano razionale tutto funziona, potremmo dire che sì, ammesso che sia possibile gerarchizzare i valori in questo modo, “ne vale la pena”. Tuttavia l’uomo è un essere molto più sfaccettato, e lo sapeva bene anche Platone… dove abbiamo già sentito di queste ipotesi in cui ci viene offerto ciò che più desideriamo? Già, Pascal, in una delle pagine più sconvolgenti dei suoi Pensieri:
«Non che se ne ricavi in effetti della felicità, né che si immagini che la vera beatitudine consista nel mettere le mani sul denaro che si può guadagnare al gioco, o sulla lepre cui si corre dietro nella caccia; non vorremmo il denaro e la lepre se ci fossero regalati. […] Quella lepre non ci impedirebbe la vista della morte e delle altre miserie, ma la caccia, che ce ne distrae, può farlo. […] Ragion per cui si ama più la caccia che la preda. Visto che ci lascia ai nostri pensieri sull’infelice condizione in cui siamo, non è questo risultato facile e tranquillo che cerchiamo, e neppure di per sé i pericoli della guerra o lo stress del lavoro; quel che cerchiamo è il tenerci impegnati per non pensarci, e il distrarci»
Per Pascal, ciò che veramente desideriamo è il desiderio stesso, è quella tensione che ci dirige a qualcosa e ci distrae così dal riflettere sulla nostra ansiogena condizione sospesa tra due infiniti, che ci impedisce di cadere negli infiniti abissi della ragione che una stanza solitaria dissemina in noi come mine in un campo minato. Immaginiamo la felicità come uno stato di quiete, che cerchiamo ossessivamente di raggiungere, destreggiandoci tra i desideri che sembrano separarci da esso. Ma, appena li superiamo, la quiete diventa noia, la noia possibilità di smarrimento nell’abisso, e subito c’è bisogno di altro divertissement. E questa è la vita, che passa pensando sempre al passato e al futuro, dimenticando di vivere il presente. Tutto questo per dire cosa? Che Pascal direbbe che quella combinazione vincente non la accetteremmo. Lo dice, anzi: non vorremmo il denaro e la lepre (l’oggetto del desiderio) se ci fossero regalati. L’attesa, il desiderio… sono molto più importanti dell’oggetto del desiderio, e sono ciò che conferisce ad esso il suo valore. L’uomo è fondamentalmente desiderio, e sopprimerlo non sembra avere veramente senso: bisogna perciò trovare l’equilibrio in quella tensione, equilibrio che ci permetta di avvicinarci alla preda quanto basta per goderne, senza mai che l’impossessarcene la privi di valore, tenendo quindi la vita in quel limbo dinamico che ci permetta di sfruttare la nostra natura concupiscente nel modo più conveniente e produttivo. Trasposta sul piano politico, questa idea potrebbe esprimersi in questo modo: la libertà è più importante della felicità, perché incarna meglio quell’ideale dinamico che è proprio della vita, perché permette di procreare nel bene nel modo più vario e inseguire la felicità, senza probabilmente mai raggiungerla… ma meglio così! Darsi un senso è sempre darsi un obiettivo. Conseguirlo equivale a perdere senso. E un’esistenza insensata necessita di essere risemantizzata. Dunque il desiderio rinasce, e non c’è scampo, non è immaginabile uno stato che sia felice. Del resto, come prosegue Pascal:
«L’uomo è infelice. Si annoia perché questa è la sua natura, anche quando non ce n’è alcun altro motivo. Ed è così superficiale che, pur pieno di mille cause essenziali di noia, si lascia divertire dalle più piccole distrazioni, come un biliardo e una pallina da colpire.»
Il desiderio è in fondo una distrazione, o comunque l’unica cosa che ci tiene in vita e che ci dà un senso. E in effetti sorprende che sia proprio Platone a supporre che si possa dare qualcosa come la felicità: lui che forse per primo comprende che l’uomo è essenzialmente eros, che è tensione continua e desiderio insaziabile… come può pensare che la città ideale possa appunto saziare l’umana necessità di rendersi desiderosi d’altro? E se non ci piace l’eziologia pascaliana del desiderio, pensiamo a Schopenhauer, che così si esprime nel Mondo come Volontà e Rappresentazione, § 38:
«Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l’appagamento; tuttavia per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre la brama dura a lungo, le esigenze vanno all’infinito; l’appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non ancora conosciuto. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole… bensì rassomiglia soltanto all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento»
Il desiderio è connaturato all’uomo, in quanto parte di quel tutto governato dall’essenza ultima della Volontà, che spinge a volere e volere e volere, senza che ci possa mai essere un appagamento definitivo. Per Schopenhauer questo stato è ovviamente negativo, straziante e alla base dell’infelicità umana: è necessario tentare la redenzione, parziale attraverso le vie dell’arte e dell’etica, o totale attraverso quella dell’ascesi, in cui la voluntas diviene noluntas. Ma possiamo concepire la Volontà, il desiderio, anche come un motore per la nostra vita, quindi un fattore, se non positivo di per sé, almeno capace di portare a qualcosa di buono? Se è vero che, in fondo, il desiderio è necessario e ineliminabile, non possiamo forse sfruttarlo per darci un senso, tenendolo vivido? Se la felicità non è molto più che un idea regolativa, quindi fuori dalla nostra giurisdizione, forse un’esistenza atarassica e dinamica al punto giusto da rimanere vitale e sensata può essere la più alta forma di realizzazione del nostro benessere, e può essere conseguita solo sfruttando la nostra infelice natura per trovarvi un giusto equilibrio tra il volere e l’ottenere. In questo senso, la “felicità”, quella che davvero possiamo ottenere da esseri umani, è qualcosa di ben più complesso di un singolo valore che dei filosofi-governatori potrebbero presumibilmente dare agli altri, anche se, per spezzare una lancia in favore del Greco, già il fatto che siano filosofi e non sapienti ci fa capire che Platone probabilmente non pensava che potessero davvero dare la felicità assoluta alla città, giacché per fare ciò dovrebbero poter conoscere l’idea del Bene totalmente, cosa che solo i sapienti potrebbero, e solo gli dei sono davvero sapienti; gli uomini sono al massimo aspiranti a ciò, ossia filosofi. E quindi la libertà sembrerebbe essere in definitiva ben preferibile, in quanto la felicità è poco più che aria fritta e la libertà è invece quella cosa che più ci serve per dare alla nostra vita un senso. Quindi, per rispondere al quesito iniziale, non è proprio vero che la libertà è necessaria per essere felici, ma solo perché la felicità non esiste in una forma così semplice; e nemmeno è del tutto vero dire che essendo liberi è possibile essere felici, ma sempre perché parliamo di un obiettivo fuori dalla nostra giurisdizione. Di certo però la libertà è necessaria per costruirsi un’esistenza più autentica possibile, che è forse quanto più vicino alla felicità ci sia dato di ottenere, e che davvero nessuno di esterno a noi può darci. Per dirla con Hannah Arendt, dal momento che la vita non ha un senso, non dobbiamo certo disperare, ma prendere questo fatto come il dono più magnifico: l’assenza di senso ci dà la possibilità, la libertà appunto, di creare arbitrariamente per la nostra vita un senso vivo secondo la nostra più autentica volontà, ci dà la possibilità di non essere individui pre-impostati, ma suscettibili di progettazione individuale e creativa, in vista di una tensione personalizzata, che ci accompagni il più possibile verso un benessere che non trascuri mai il ruolo attivo del singolo.
Io adoro la vostra iniziativa di far dialogare le persone, però vi prego impaginate un pò meglio l’articolo… fa troppo effetto “muro di testo” e scoraggia molto la lettura.
Comments are closed.