Quest’oggi a guidare le nostre riflessioni sarà forse uno degli autori più influenti e caratteristici del primo Novecento: Marcel Proust. Prima di farci trasportare insieme dal testo scelto però è opportuno, a mio parere, fare la conoscenza dell’autore: del resto l’arredamento di una bella casa si comprende a fondo solo dopo averne conosciuto i proprietari no? Marcel nasce ad Auteuil (Parigi – 1871) e già da giovanissimo è segnato da problemi di salute (dell’80 le prime manifestazioni di asma). Il suo percorso di studi, interrotto dal servizio militare, lo porta a laurearsi in Lettere: sono anni, questi, in cui iniziano le sue esperienze mondane (1892) e le sue collaborazioni con varie riviste parigine. Questi legami, favoriti dall’ambiente borghese da cui Proust proveniva, saranno cifra della sua vita, polarizzata da un lato dalla frequentazione dei salotti e di luoghi di ritrovo aristocratici, dall’altro dalla natura stessa dell’autore, caratterizzata da uno spirito critico pronunciato e da un forte acume osservativo che lo porta a conservare nella propria intimità i dolci ricordi della propria infanzia, tradotti spesso in immagini e simboli. In seguito alla morte di entrambi i genitori (1903, 1905) questi ricordi così solidamente conservati riemergono in un’opera narrativa dal potere evocativo dal titolo Alla ricerca del tempo perduto, il cui primo volume prende forma nel 1913, opera dalla quale è tratto il passo scelto. Compreso brevemente il substrato biografico che caratterizza il nostro “proprietario di casa” entriamo allora dalla porta, avendo ormai le giuste chiavi in mano. L’episodio narrato è sicuramente complice della scelta di un titolo così inusuale: la vicenda infatti prende l’avvio da un semplice biscotto caratteristico francese, una madeleine.
Una sera d’inverno, – ci racconta Proust – appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleines, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto di madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita. […] Non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva? Che senso aveva? Dove fermarla? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. È tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione (e proprio ora), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità. […] Retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più, ricondurre ancora una volta la sensazione che sfugge. […] Ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi. Certo quello che palpita nel mio fondo deve essere l’immagine, il ricordo visivo che, collegato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si dibatte lontano, troppo confusamente; […] Ora non sento più nulla, è fermo, forse è ridisceso, chissà se mai più risalirà dalla sua notte. […] All’improvviso, il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, […] quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio. […] La vista della madeleine non mi aveva rammentato nulla prima che l’avessi assaggiata […] Ma anche quando non sussiste più nulla di un antico passato, dopo la morte delle persone, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vivi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore restano ancora per molto tempo, come delle anime, a ricordare, ad attendere, a sperare sulle rovine di tutto il resto, a portare senza piegarsi sulla loro goccia quasi impalpabile, l’immenso edificio della memoria.
Evidente è, tra queste righe, la portata innovativa di questo testo, ed altrettanto chiara si profila la tematica del tempo e del ricordo. Tuttavia non mi soffermerò su questo aspetto, spesso analizzato, che lascio per essere approfondito a voi lettori. Vorrei invece concentrarmi, come suggerisce il secondo termine presente nel titolo, sull’aspetto estetico dell’episodio narrato. Mi spiego meglio, o almeno ci provo: leggendo il brano si possono tracciare due filoni che conducono i pensieri del personaggio, l’uno dettato dalla volontà, l’altro guidato dalla dimensione delle sensazioni e del sensibile, dall’estetico appunto. Dopo un primo momento introduttivo infatti, atto a preparare il passaggio narrativo all’interiorità, Proust si concentra sul proprio Io, in una battaglia continua, che vede i due “rivali” sopracitati concorrere al recupero del ricordo, la cui ancora sembra configurarsi inevitabilmente su di un piano estetico, esperienziale (il cucchiaino di tè in cui viene inzuppata la madeleine). Lo spunto critico allora potrebbe essere proprio questo: in opposizione al pensiero comune, spesso irriflesso e accettato, che l’uomo sia animale razionale, individuo che si realizza e padroneggia se stesso nell’espressione piena della volontà razionale, compare un piano differente. Questo piano, come ci suggerisce Proust stesso, va al di là della coscienza volitiva umana, che fallisce nel recupero di una parte del sé, del ricordo sepolto tra i meandri dell’Io, è sfaccettatura dell’individuo che si configura partendo dall’odore e dal sapore, nella piena esperienza dei nostri sensi. È questo nostro Io dei sensi, spesso non considerato o addirittura aborrito, che possiamo riprendere in considerazione e valorizzare, questo essere animale estetico al fianco della nostra volontà razionale, spesso “troppo” protagonista, che nell’episodio narrato non può nulla. Come ci dice Proust, infatti, è come in quel gioco nel quale i Giapponesi si divertono a tuffare, in una tazza di porcellana riempita d’acqua, dei pezzetti di carta fino allora indistinti, che appena immersi si stirano, assumono dei contorni, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, personaggi consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne, e la buona gente del villaggio, e i piccoli appartamenti e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto questo prende forma e solidità, ed è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè.
Grazie x questo articolo. Non conoscevo Proust. La tua riflessione breve ma intensa mi ha guidata tra le righe di questo brano profondo e nella stesso tempo delusato….. Bello!!!
Scusa… delicato.
Sono contento di aver fatto conoscere un autore a te ignoto, dopotutto questo è lo spirito di Sophron.it, far conoscere e riflettere insieme attraverso il dialogo. Grazie per il commento
Comments are closed.