E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là del quale è l’ombra nera […] Cerchiamo […] d’inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? Secondo il vetro che ci fornisce l’illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio di un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io… […] Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni. […] Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine […] il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione.

Le righe sulle quali si sono posati i vostri occhi, e si è soffermata la vostra mente, sono la trascrizione di quello che forse è uno dei dialoghi più famosi dell’altrettanto famosa opera pirandelliana de Il fu Mattia Pascal. Quest’opera, pubblicata a puntate a partire dal 1904, è ricca delle tematiche che Pirandello (1867, Agrigento, allora Girgenti – 1936, Roma) si troverà a sviluppare lungo tutta la sua carriera letteraria. Tra queste spiccano il relativismo gnoseologico, ovvero la relatività del processo di conoscenza e dei giudizi ai quali esso porta e la messa a nudo dei valori comunemente accettati e dei ruoli della vita associata, in una continua e costante demistificazione. Dal brano stesso che poco sopra abbiamo riportato trasudano queste tematiche, che si declinano ed espandono anche nelle righe seguenti a quelle qui citate. L’invito alla lettura dell’opera, per chi non l’avesse già fatto, suona a questo punto quasi obbligatorio.

Nelle righe che qui ci concederemo per la nostra riflessione la volontà è quella di trarre da questa trascrizione spunti e sentieri del pensiero che possano, si spera, interpretare il testo in maniera fresca e non banale, lasciando invece al volenteroso lettore il compito di individuare le grosse tematiche poco sopra solamente accennate.

La nostra riflessione si articolerà quindi seguendo quelle che ai nostri occhi sembrano importanti parole chiave che guideranno il nostro sguardo e i nostri pensieri fino alla fine del testo come in un ipotetico filo d’Arianna. La prima dimensione che andremo ad analizzare, addentrandoci in quella che Pirandello stesso ha chiamato poco sopra una lanterninosofia, è quella dei sensi, stigmatizzata da parole quali sentimento e sentirci vivere. Quello che è significativo notare qui, infatti, è che, nel parlare di ciò che caratterizza l’uomo non si è scelto un termine come ragione, concetto o pensiero: è bensì il sentimento del vivere che caratterizza l’essere umano, in una dimensione più profonda del mero conoscere e concettualizzare razionale. È proprio questa dimensione della sensibilità, del sentire, che è vista dal signor Paleari come il lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso, lanternino che, prosegue il signor Anselmo, è colorato differentemente dagli altri, secondo il vetro che ci fornisce l’illusione. Seconda dimensione che qui si affaccia, se non è nostro intento seguire Pirandello fino nel relativismo gnoseologico, è quella di una forte considerazione del piano del soggetto: ciascuno di noi è un Io affacciato sul mondo, e non vi è altro punto di vista possibile su di esso se non quello mediato dal soggetto che guarda, dal lanternino che sì illumina, ma di una luce che è colorata diversamente per ciascuno, in un cerchio più o meno ampio di luce che sempre si tinge in modo particolare e caratteristico. Tutti questi colori, come ci ricorda il discorso Pirandelliano, si sono spesso, e in varie epoche storiche, trovati in accordo, illuminando il terreno di una luce omogenea. Non è questa secondo l’autore, e anche secondo noi, la sorte del Novecento, secolo caratterizzato da una fiera ventata, che ha spento d’un tratto tutti quei lanternoni. Nell’improvviso bujo che questa repentina folata di vento ha generato, in questa situazione in cui le singole lanternine si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, spiccano in una pretesa di soluzione salvifica coloro che recano in trionfo le lampadine elettriche, interpretabili come coloro che annullano la propria particolare e colorata luminescenza nella cieca aderenza alla asettica luce di una scienza che non alimenta in maniera potenziante l’individualità lucente di ogni singolo Io, ma che livella e unifica, dimentica della partenza sempre condizionata di questa luce sul mondo. A nostro avviso diventa allora sicuramente molto importante il tentativo di allargare quel cerchio di luce proveniente da ogni Io in un’ottica però ben precisa, secondo quel diderotiano moltiplicare i punti di luce sul terreno che non è però riduttiva riconduzione al semplice e all’uniforme, quanto invece piuttosto un consapevole elogio del complesso, della differenza irriducibile che caratterizza ciascun Io, differenza dalla quale ripartire e della quale sempre essere consapevoli nell’approccio al mondo, grande mercato di vetri colorati.