Il silenzio non è la presenza di un particolare suono, ma l’assenza di ognuno di essi. Ed è per questo che non esiste, come non esiste una condizione in cui nessun suono possa essere udito. Infatti, il silenzio è più uno stato mentale che un’effettiva componente della natura. Ci si potrebbe riferire ad esso parlando del concetto di attenzione: quando non si ascolta, allora tutto è silenzioso potenzialmente allo stesso modo, anche se ci si trova nel mezzo del frastuono più totale. Infatti, se riteniamo di trovarci immersi in uno stato di silenzio è soltanto perché non stiamo ascoltando a dovere, perché anche se ci trovassimo immobili in una camera anecoica, massima trovata nel campo dell’insonorizzazione e dell’isolamento acustico, udiremmo almeno due suoni: quello di bassa frequenza emesso dal nostro sistema nervoso in funzione e quello acuto prodotto dalla circolazione del sangue nelle orecchie. Dal punto di vista dell’essenza fenomenica, non c’è molta differenza tra tale stato e quello sopracitato del frastuono, se non la vistosità delle fonti sonore e la loro natura rispettivamente esterna ed interna al corpo umano. Siamo quindi condannati a non conoscere il silenzio, che sembra quasi assumere le sembianze di un’idea platonica presente nell’iperuranio, ma mai concretizzata nel mondo che conosciamo.
Eppure c’è un compositore in particolare, tra i tanti degni di nota del Novecento, che è passato alla storia per aver fatto del silenzio uno degli elementi centrali della sua poetica musicale. Parliamo di John Cage (1912 – 1992), principale esponente del movimento della musica aleatoria (dal latino alea, “dado”, che rimanda alla casualità e vedremo presto per quale ragione). Nato a Los Angeles da un inventore e da una giornalista, studierà pianoforte fin da tenera età, per poi spostarsi in Europa in seguito al conseguimento del diploma, dove studierà col celebre Arnold Schönberg. Uomo incredibilmente brillante, si interesserà nella sua vita sia al mondo dell’arte sia a quello della filosofia (specialmente orientale) e della sociologia. Instaurerà sodalizi artistici con importanti figure della danza (Merce Cunningham), dell’arte visiva (Marcel Duchamp) e della letteratura (James Joyce), scriverà di pedagogia e di estetica, passando per la macrobiotica e il giardinaggio. Ma soprattutto diventerà quello che potremmo definire senza troppe esitazioni il più grande innovatore dello scenario musicale americano (e forse del mondo) di ogni epoca, spingendosi in direzioni spesso estreme, ma assolutamente singolari ed interessanti, andando infine a mettere in discussione la concezione stessa della musica. Ascoltando le sue composizioni, le dissonanze saranno veramente l’ultimo fattore che ci colpirà, praticamente scontato rispetto ad altri aspetti della sua musica, che rappresentarono allora qualcosa di perlopiù inconcepibile, rimanendo tutt’oggi assolutamente affascinanti e avanguardistici.
Importante nella concezione musicale di John Cage è l’idea di casualità. Il compositore tentò, infatti, in diversi modi, di inserire elementi suscettibili di casualità all’interno nelle sue composizioni, in modo da rendere ogni esecuzione unica ed imprevedibile in una certa misura. Uno dei metodi più conosciuti che gli permisero di ottenere questo, fu l’utilizzo del cosiddetto piano preparato, ossia un pianoforte a coda dalla cordiera alterata per mezzo dell’installazione casuale in essa di materiali estranei come chiodi, strisce di cuoio, pezzi di legno ed altro, in modo che il timbro dello strumento venisse occasionalmente denaturato, in maniera del tutto imprevedibile sia per il pubblico che per l’esecutore, e persino per il compositore, che ogni sera poteva così ascoltare la musica da lui composta per la prima volta nella sua vita (almeno in quella specifica versione).
Importante è anche il concetto di indeterminazione, che appare strettamente legato alla casualità. Cage, infatti, distingue all’interno di un brano musicale diverse componenti, tra cui: il metodo, ossia la procedura nota per nota; il timbro, determinato dalle caratteristiche sonore peculiari dello strumento utilizzato; la struttura, ossia il modo in cui il tutto è diviso in parti e come esse si intersecano tra di loro; l’ampiezza, equivalente all’intensità del suono nei vari momenti del pezzo, e via dicendo. Ognuna di queste componenti può essere lasciata almeno parzialmente indeterminata in sede di composizione, all’interno di un brano. Egli spesso ricorre, non a caso, a un sistema di notazione innovativo per supplire l’assenza di determinate caratteristiche fondanti nella musica scritta. Così facendo, viene favorita la casualità. Per esporre la modalità interpretativa che ogni esecutore deve seguire suonando un suo brano, Cage usa la metafora del disegno: a seconda delle caratteristiche lasciate indeterminate, l’esecutore si trova nella condizione di dover colorare una figura di cui conosce solo i contorni, oppure svolgere la funzione di chi dà la forma. In entrambi i casi, Cage spiega mediante una formula ricorrente in quali modi è possibile approcciarsi all’interpretazione: «Può farlo [l’interprete] in maniera organizzata che poi potrà essere analizzata con successo. Oppure può svolgere questa sua funzione in maniera non organizzata consapevolmente, arbitrariamente, seguendo i dettami del suo ego; oppure in maniera più o meno inconsapevole, procedendo verso l’interno della struttura della mente fino al livello onirico, seguendo i dettami dell’inconscio, come nella scrittura automatica; oppure verso l’inconscio collettivo della psicoanalisi junghiana, seguendo l’indole della specie e facendo qualcosa di interesse più o meno universale per gli esseri umani; o verso il “sonno profondo” delle pratiche mentali indiane, il Fondamento di Meister Eckhart, identificandosi con un’eventualità qualunque. Oppure può svolgere in maniera arbitraria la sua funzione, procedendo verso l’esterno per quanto riguarda la struttura della propria mente, verso la percezione sensoriale, seguendo i suoi gusti, oppure utilizzando in maniera più o meno inconsapevole un’operazione esterna alla mente: tabelle di numeri casuali, seguendo l’interesse della scienza per la probabilità, o le operazioni aleatorie, identificandosi con un’eventualità qualunque». Il risultato di tutto questo è sintetizzabile con la concreta dimostrazione della frase citata da Cage stesso , che afferma che nessun atto è vergine, nemmeno quello ripetuto.
Persino la composizione delle caratteristiche determinate del brano viene lasciata spesso in mano a fattori che sfuggono allo stesso Cage, che ad esempio ricorda spesso di aver composto musica seguendo graficamente le casuali imperfezioni presenti sul foglio sul quale stava scrivendo. Ma lo stesso può essere fatto ottenendo risultati apprezzabili anche servendosi dell’I Ching, il libro dei mutamenti cinese, oppure di operazioni legate alla sezione aurea, ad esempio. Si parla di procedimenti aleatori, dei quali Cage si serve per rendere l’artista niente più che liberatore della musica, che è suono e quindi natura pura, non imitazione della natura, come ipotizzato fin dai tempi degli antichi. Per fare questo, bisogna quindi eliminare anche la volontà di introdurre nella propria opera delle emozioni, che sono un elemento personale, soggettivo, umano, e tutto ciò è estraneo al suono. Non c’è spazio per la poesia nella musica di Cage: si tratta solo di suoni. Ma anche la ragione, che nell’atto compositivo è presente quanto il lato emotivo della personalità dell’autore, va estirpata, rifiutando la concezione di musica come organizzazione di suoni. In tutta la sua teoria a riguardo è presente con una certa forza l’influenza del Dadaismo (infatti Cage collaborò con Duchamp, principale esponente della corrente) e della filosofia Zen, nonché anche qualche analogia con lo stream of consciousness di Joyce, autore che fu caro al compositore americano. Ovviamente, apprezzare musica di questo genere non è qualcosa di facilmente abbordabile per chiunque: spiega perfettamente Cage che possiamo volare solo se siamo disposti a smettere di camminare. E prosegue: «Ancora una volta ci troviamo di fronte a un bivio. Devi scegliere. Se non sei disposto a rinunciare al tentativo di controllare il suono potrai complicare la tua tecnica verso un’approssimazione delle nuove possibilità e della nuova consapevolezza. Oppure, come già detto, puoi rinunciare alla pulsione di controllare il suono, liberare la testa dalla musica ed iniziare a scoprire i mezzi con cui i suoni possano essere se stessi invece che veicoli per le teorie create dall’uomo oppure espressioni di sentimenti umani. […] Musica nuova: ascolto nuovo. Non il tentativo di capire quanto si dice, perché, se si dicesse qualcosa, i suoni assumerebbero forma di parole. Ma soltanto un’attenzione all’attività dei suoni».
Poste queste premesse, dunque, appare evidente la somma potenza che il silenzio doveva rappresentare per il compositore americano. Non soffocare il silenzio con i suoni significa permettere alla casualità più totale di sfogarsi, significa lasciare carta bianca alla natura e al suono puro. Creare un brano per qualunque strumento che consista nel non suonare quello strumento, significa negare la centralità dell’uomo nei processi sonori e affermare, attraverso una rivoluzione estetica, che ogni suono che interrompe l’utopico silenzio può essere musica, basta ascoltarlo con l’ottica giusta. Cage attua quanto appena detto con il brano 4’33”, nel 1952. È proprio questo, non a caso, il brano ricordato da Cage come il più importante della sua carriera, giacché non ne hai bisogno per ascoltarlo.
Il titolo, all’apparenza così curioso, si riferisce intuitivamente alla durata del pezzo per come l’aveva immaginato il suo autore, come del resto lasciano intendere le virgolette accanto ai numeri, nonché le parole di Cage stesso, che si riferiva ad esso parlando di Quattro-trentatré oppure Quattro minuti e trentatré secondi. Ma non è tutto qui: tale lasso di tempo espresso in secondi equivale infatti a 273 secondi. Non a caso, si direbbe, in fisica -273.15°C è la temperatura alla quale ci si riferisce con il nome di zero assoluto, irraggiungibile per diverse ragioni, così come inarrivabile è il silenzio. È infatti in questa direzione che 4’33” vuole dirigersi: dimostrare che il silenzio non esiste, salvo poi passare paradossalmente alla storia come un brano costituito dal silenzio stesso. Non si tratta di un pezzo che pone al centro della propria attenzione il silenzio, come spesso si crede: esso inscena il silenzio, ma soltanto in modo funzionale a lasciare al suono la più libera e casuale espressività. Musica aleatoria assoluta, in cui né il compositore né l’esecutore ha alcun potere sulla musica prodotta. Il brano potrà anche essere composto da silenzio, ma il silenzio non è atto di nulla, quanto potenza di tutto, pronta all’atto.
È questo che, fondamentalmente, distingue il lavoro del compositore americano da quello di alcuni suoi precursori: Alphonse Allais (1854-1905) compose nel 1897 il primo esempio di brano silenzioso, intitolato Funeral March for the Obsequies of a Deaf Man, consistente di ventiquattro battute vuote. La vicinanza di Allais ad Erik Satie (1866-1925), molto stimato da Cage stesso, rende plausibile che Cage conoscesse tale esperimento, anche se egli lo negò. Ma non è questo il punto: Cage si spinge oltre sia Allais che altri precursori. La sua è musica aleatoria, non semplice silenzio. Come detto, non è l’assenza di suono ad essere il suo obiettivo, quanto la presenza del suono più vero e libero, a cui viene lasciata carta bianca. Il compositore si dichiarerà deluso fin dalla prima esecuzione pubblica del pezzo, proprio per il fatto che il pubblico non fosse mediamente in grado di percepire il suo messaggio, né di porsi nell’atteggiamento corretto durante l’atto dell’ascolto, che se fosse stato adeguatamente attento avrebbe rivelato senza troppi ostacoli l’effettiva assenza di silenzio per come lo intendiamo abitualmente e la vera essenza dell’opera di Cage.
Giornalista: «E allora a che cosa serve la musica sperimentale?»
Cage: «A nulla! Sono suoni!»