L’autore la cui opera sarà oggetto della nostra riflessione critica di oggi è John R. R. Tolkien. Con questo autore, che non ha certamente bisogno di presentazioni, il nostro focus si sposta dai cosiddetti classici dell’antichità o della tradizione letteraria propriamente detta; rimane tuttavia innegabile, a nostro parere, il ruolo fondante e miliare di un autore come il Nostro, e di tutte le sue opere. Pur essendo dunque controverso il suo inserimento nelle antologie letterarie, resta chiara a tutti gli amanti della letteratura la grandezza della figura, quanto delle letture possibili, e degli spunti forniti, dalle parole dell’autore stesso.

Pur non necessitando di alcuna presentazione, come già detto, forniamo, com’è tradizione nella nostra rubrica, qualche cenno introduttivo per meglio collocare l’autore nel periodo storico a lui coevo e quindi per meglio addentrarci nel suo pensiero. Di John Ronald Reuel Tolkien (1892, Bloemfontein, Sud Africa – 1973, Oxford, Regno Unito) ci sarebbero un’infinità di cose da dire, tanto che potremmo fare un articolo solamente apprezzando la sua biografia. Mi limiterò solamente a fornire alcune indicazioni propedeutiche alla nostra trattazione, con l’inivito a recuperare un’approfondimento di quanto qui verrà detto (suggerisco, tra i link utili, questo e quest’altro). Nato in Sud Africa (terra che lascerà profondi ricordi in lui, successivamente impressi nei suoi racconti) si trasferisce presto (1896) in Inghilterra, West Midlands. Questi luoghi saranno di grande influenza nella percezione della realtà che circonda l’autore, e lasceranno una traccia profonda attraverso le parole dei suoi scritti. Educato in un ambiente radicalmente cattolico, l’autore si dimostrerà profondamente adeso a questa fede per tutta la sua vita. Intraprende i suoi studi (Oxford, 1911) legati al mondo delle lingue, verso le quali aveva già dimostrato una naturale propensione (passerà da un corso di studi sui Classici ad uno a lui più congeniale in Lingua e Letteratura Inglese). Il fascino che le lingue esercitano sull’autore è talmente forte da spingerlo ad inventarne di nuove (influenzate fortemente dal Finlandese) che saranno alla base dei linguaggi parlati nelle sue opere di maggior spessore. Dopo essersi sposato con Edith Bratt (1916) Tolkien viene richiamato alle armi a causa dello scoppio del Primo Conflitto Mondiale: ritornerà presto dai campi di battaglia in quanto malato di febbre da trincea.

Fermerei qui la sequela di cenni storici, per evitare di annoiare voi lettori in primis, ma anche perché abbiamo, credo, le basi necessarie per comprendere la riflessione dell’articolo odierno. Riflessione che parte, invero, proprio da un setting specifico della giovinezza dell’autore: l’Ighilterra delle West Midlands.

Quali allora le suggestioni che l’autore trae da questo territorio? Queste aree erano sviluppate, ai tempi, in maniera quasi bipartita, e ossimoricamente compenetrante: erano, allo stesso tempo, la propaggine industriale della città di Birmingham e l’espressione dalla ruralità tipica del mondo Inglese. Ritroviamo questo binomio tra mondo naturale e mondo dell’industria nella celeberrima trilogia de Il Signore degli Anelli. La chiave di lettura dell’opera che qui proponiamo è, quindi, questo bipolarismo artificiale-naturale che segna nettamente i confini di universi ritenuti benefici e positivi da altri ritenuti oscuri e devianti. Natura è per l’autore il mondo dell’armonia, dell’anti-cultura nel senso più negativo attribuibile a questa parola. Natura è il mondo armonioso e saggio degli elfi, è la bonaria e ingenua bontà della Contea, è la dimensione silvana e protettrice degli Ent. L’influenza artificiale, al contrario, è vista come radicalmente modificante la realtà, in modi spesso travalicanti e opprimenti. Sintomo di questa volontà di affermazione è appunto il mondo dell’industria: sfruttamento, de-naturazione di quanto è armonioso e stravolgimento dell’ordine naturale sono parole-chiavi per comprendere le rappresentazioni del mondo “industriale” de Il Signore degli Anelli. Pensiamo solamente, per scendere maggiormente nel testo, alle fucine di Uruk-hai di Isengard che, per fabbricare un esercito con modalità alla stregua di una catena di montaggio, distruggono e disboscano la zona circostante a danno di un’armonia preesistente (e poi ristabilita nel famoso episodio della marcia degli Ent). È risaputo – commenta Christopher Tolkien, terzo figlio dell’autore – e spesso si dice che [mio padre n.d.r.] disprezzasse il mondo moderno, e ovviamente questo è vero: il mondo moderno significava per lui essenzialmente la macchina. La macchina per lui era la soluzione sbagliata, il tentativo di concretizzare tutti i nostri desideri, come ad esempio quello di volare. Tali parole non possono non richiamare alla mente l’idea Heideggeriana di tecnica. Il concetto di tecnica si rifà, nel mondo di Martin Heidegger, ad un rapporto scorretto che la scienza, ritenuta radicalmente limitata e cieca, imposta con la realtà: la scienza tecnicizza il mondo, lo entifica, rendendolo niente più che un mero “oggetto” di analisi razionale. La scienza, entificando la realtà, nega all’ente quella valenza ontologica che rimanda ad una dimensione più originaria, pretendendo un dominio radicale della dimensione scientifico-razionale sulla dimensione mondana. Questa posizione, in aperto contrasto con quella del maestro Husserl, nato come uomo di scienza, ben si rispecchia nel pensiero dell’autore letterario qui in esame. La macchina, per Tolkien, significava coercizione, dominio, era il grande nemico. La coercizione delle menti e dei desideri: questa è la tirannia, questo è il significato generale di macchina. Ritroviamo quindi questa dimensione tecnica nello sfruttamento scientificizzato e nella posizione di suprema autorità della Torre di Saruman: che cosa dire invece dell’industria di Mordor?

La mass production di orchi e creature-abomini è solamente il contorno di quello che è l’emblema radicalmente fabbrile di tutto questo mondo: l’Anello. La macchina suprema in termini mitologici – ci racconta di nuovo C. Tolkien – è l’Anello, quell’Unico Anello. Questo poteva sembrare straordinario; molti dicevano: “Ma l’Anello è la cosa più magica di tutte!” E lui [J. R. R. Tolkien n.d.r.] rispondeva: “La magia è molto vicina alla macchina, la magia è coercizione, è tentativo da parte dei potenti di trasformare il mondo”. L’elemento apparentemente più anti-scientifico, anti-industriale, permeato di magia, si rivela quindi essere, nell’immaginario Tolkieniano, il rappresentate supremo di questo mondo tecnico, alla cui dimensione comprensiva e dominativa rispetto alla realtà si aggiunge quella ulteriormente aggravante della costrizione: magia, e quindi macchina, è coercizione.

Una simile lettura de Il Signore degli Anelli ci suggerisce, traendo le conclusioni, di non riporre eccessiva e cieca fiducia nel mondo tecnico-scientifico, anch’esso soggetto a fallacie e con una volontà che spesso si auto-dipinge come onnipotente e onnicomprensiva. Senza sfociare nella radicale demonizzazione della scienza, che sembrano proporre sia lo Heidegger preso in considerazione sia l’autore in esame, lo spunto critico che personalmente proponiamo potrebbe proprio essere questo: cercare di analizzare il mondo che ci circonda, anche nella “ovvietà” della dimensione scientifica in cui siamo immersi, con sguardo più consapevole, sapendo riconoscere limiti e possibilità che ha da offrire, e cercando di svelare i volti (ai nostri occhi magici?) dietro ai quali spesso viene dissimulata nella sua dimensione tecnicizzante. Insomma, a conti fatti, cercare di stabilire un corretto rapporto con la scienza, che (contro il parere degli autori) ha, ai nostri occhi, grandi potenzialità, pur rimanendo limitata e non capace di ogni cosa. E cercare soprattutto di non ergere questo piano tecnico-scientifico come l’Unico (Anello?) da cui far derivare la nostra lettura del mondo.

L’intervista a Christopher Tolkien è tratta dal documentario “Tolkien – Creatore di Mondi” – 2015