La riflessione è necessaria, o quantomeno stimolante, anche in cose effettivamente inutili come la classificazione dei generi musicali. A parere di chi scrive, tanto tale classificazione quanto la valutazione in decimi o stelline tanto in voga nelle riviste musicali e nei siti web dedicati, hanno la sola funzione di indirizzare il neofita in una direzione piuttosto che un’altra, per non perdersi nel marasma generale del mondo della musica di oggi (e lo stesso vale per il cinema). Ha quindi una funzione di orientamento. A dire il vero, in questo senso non si può dire che tale usanza sia inflazionata, dal momento che intere fette di mondo musicale sono lasciate piuttosto scoperte da una trattazione sistematica di questo tipo, rendendo difficile l’orientamento se non a tastoni. Ad ogni modo, una delle classificazioni di genere più discusse è quella di “progressive“, insieme a quella di “alternative” (che è forse ancora più vuota di significato). Sono numerosi gli artisti che, intervistati su vari argomenti, alla domanda «fate musica progressive?» cadono in crisi, sfociando tendenzialmente in tre possibili risposte:

  1. Che cos’è progressive?
  2. , è ciò che facciamo.
  3. No, non c’entriamo con quello.

Quest’ultima risposta è per assurdo quella che forse indica più di ogni altra cosa l’effettiva classificabilità dell’artista in questione sotto l’etichetta progressiva. La seconda, spesso, indica l’esatto contrario, la prima è probabilmente la più intelligente, e pone una domanda dalla cui risposta dobbiamo partire per mettere in chiaro un paio di questioni.

L’etichetta “progressive” indicava inizialmente una certa tendenza musicale rock nata alla fine degli anni Sessanta, caratterizzata dalla volontà di “espandere” in tutti i sensi il formato della musica rock: canzoni destrutturate, spesso più lunghe della media canonica, tecnicamente elaborate, includenti influenze dal mondo classico, jazz, etnico e chi più ne ha più ne metta, inclusione di strumenti inusuali, predilezione per album concettuali e concepiti come unità artistica a sé stante, e via dicendo. I semi di tale corrente sono da ricercare in gruppi come i Beatles (specie quelli del White Album e di Abbey Road) e i Moody Blues (si pensi a Days of Future Passed), ma la prima vera e grandiosa incarnazione di questo genere l’abbiamo nel 1969, con l’album d’esordio dei King CrimsonIn the Court of the Crimson King: un capolavoro immortale che influenzerà tutta la generazione successiva. L’apice della creatività progressive si presenta tra il 1971 e il 1973, con band come i Genesis, i Pink Floyd, gli Yes, gli Emerson Lake & Palmer (per citare solo i famosissimi) che sfornano i loro capolavori. A metà degli anni Settanta qualcosa s’incrina: i King Crimson pubblicano un ultimo capolavoro (Red, 1974) e poi si sciolgono, per tornare in azione solo nel 1980 con una formazione del tutto rinnovata e un’inclinazione new wave molto marcata; i Genesis perdono Peter Gabriel e Steve Hackett, iniziando la loro svolta pop che li consacrerà al mondo intero nel decennio successivo; gli Yes diventano sempre più pomposi, iniziando ad annegare nei loro stessi estremi virtuosismi fini a se stessi, lo stesso vale per gli Emerson Lake & Palmer, ma in modo ancora meno glorioso. La pietra tombale del progressive rock possiamo collocarla nel 1977, con la nascita del punk che, quasi in ribellione a tutto ciò, propone un ritorno alla semplicità strutturale e tecnica della forma-canzone con suoni rozzi e toni rabbiosi. Solo i Pink Floyd, tra i grandi, saranno in grado di accogliere alcuni input della nuova corrente, pubblicando ancora un paio di ottimi album prima della disgregazione della formazione storica e dei diverbi tra Waters e Gilmour, con tutto ciò che ne conseguì.

Per un po’, nessuno parla più del progressive. Persino i King Crimson, maestri del progressive tornati in attività nel 1980 con l’ottimo album Discipline, sembrano lontanissimi dalle sonorità originali, e di fatto lo sono. Negli stessi primi anni Ottanta band come i Marillion iniziano a riproporre tuttavia sonorità molto vicine a quelle dei primi Genesis, come l’esordio Script for a Jester’s Tear testimonia, per poi riuscire a sposarle egregiamente con sonorità ottantiane e il gusto pop del periodo nel celebre Misplaced Childhood. Ben presto tocca agli IQ e ai Pendragon fare altrettanto, riscuotendo tuttavia assai meno successo per via della maggiore ortodossia, che li porta a riproporre più puramente le dinamiche del progressive classico, intrinsecamente anti-commerciali nel nuovo decennio. Ma si sa che più una cosa si allontana, più la nostalgia agisce nel suo processo di santificazione: negli anni Novanta, infatti, gruppi come gli Spock’s Beard e i Flower Kings (rispettivamente americani e svedesi, a dimostrazione di come un genere tipicamente inglese – anche se abbondantemente declinato in modo molto originale fin dai primi tempi in molti altri paesi europei, primi tra tutti Italia e Germania – stia tornando ad essere un fenomeno di massa, anche se sotterraneo) ripropongono essenzialmente in modo fedelissimo il sound delle loro band preferite degli anni Settanta, talora tuttavia anche con rielaborazioni di notevole interesse, come dimostrano gli Änglagård. Tutti gli artisti citati in questo paragrafo vengono generalmente inseriti nella corrente cosiddetta neoprogressive.

Ma non è tutto: nei primi anni Novanta, infatti, accade qualcos’altro di rilevante. Mentre i Marillion, smarrito il cantante Fish e acquisito Steve Hogarth, si preparano a un cambio di rotta che si barcamena tra il pop più sfrontato e invece qualcosa di finalmente nuovo, anche gruppi come i Porcupine Tree, sempre ispirandosi ai grandi degli anni Settanta, ma approdando a tutt’altri risultati, si preparano a debuttare con proposte innovative. Gli stessi Porcupine Tree accolgono sì forti influenze progressive, ma anche psichedeliche, ben presto elettroniche (altro genere che, comunque, si radica in certi esperimenti del progressive estremo tedesco, come i Tangerine Dream), senza dimenticare la lezione dei protagonisti della new wave ottantiana e, quando i tempi saranno maturi, delle varie declinazioni del metal più o meno estremo, e via dicendo. Il risultato è qualcosa di estremamente diverso dal neoprogressive, ma che viene spesso comunque riconosciuto nella corrente in quanto accostabile al progressive classico, ma realizzato molto dopo il suo periodo aureo. Parallelamente a questo accadono almeno altre due cose importanti: in primo luogo, dal metal più puro iniziano a crearsi alla fine degli anni Ottanta dei movimenti alternativi che portano ad album fondamentali come Operation: Mindcrime dei QueensrycheThe Real Thing dei Faith No More (senza dimenticare alcuni lavori di Savatage e Fates Warning), che ispireranno artisti americani come gli Shadow Gallery e i più celebri Dream Theater nella realizzazione dei primi album compiutamene progressive metal (come il celebre Images & Words), nei primi anni Novanta. Da qui tutta una serie di epigoni dei Dream Theater daranno vita ad una scena abbastanza sterile, ma che porterà in alcuni casi a gruppi del tutto originali, come Opeth e Pain of Salvation, che rifacendosi a un metal più oscuro e meno tecnico produrranno capolavori di inestimabile valore a cavallo del nuovo millennio, come Blackwater ParkRemedy Lane. Questa nuova ondata proveniente dal metal estremo è riscontrabile anche in gruppi come Anathema e Katatonia, che passano dal doom death metal più oscuro di album di fine anni Novanta come A Silent EnigmaBrave Murder Day a un emotivo metal/rock più sperimentale (JudgementThe Great Cold Distance nei primi anni del Duemila), spesso atmosferico e tendenzialmente malinconico (We’re Here Because We’re HereDead End Kings nei primi anni Dieci), destinato a far versare infinite lacrime a metallari convertiti. In secondo luogo, dal rock dei primi anni Novanta iniziano a nascere da un lato gruppi come i Radiohead, che sperimenteranno praticamente qualunque cosa nella loro carriera, dall’altro gruppi come Mogwai e Tortoise, che fungeranno da scintilla per quella tutt’ora florida scena definita “post rock”: entrambi i fenomeni (dell’alternative rock di certi gruppi e del post rock) non hanno sostanzialmente nulla a che fare con il progressive degli anni Settanta, eppure…

Tutto questo senza nemmeno citare il nuovo fenomeno del djent (radicato nei Meshuggah ma esplicitato solo negli ultimi anni in band come TesseracT, Periphery e Animals as Leaders) o fenomeni estremi come quello dell’evoluzione degli Ulver negli ultimi 20 anni, per fare due esempi. Ma perché in fondo non è importante spingere l’analisi di questo “genere” oltre a quanto già fatto: non è intenzione di questo articolo formulare una mappa precisa di tale evoluzione, quanto dare un’idea generale del fenomeno, per poi pronunciarsi sulla sensatezza di una tale definizione. Già, perché ad oggi c’è, come si diceva, molta confusione nella definizione di questi artisti, anche a causa della grande evoluzione del loro sound nel corso della carriera, cosa che negli anni Settanta poteva accadere in modo limitato, sia perché i generi a cui attingere erano più limitati, sia perché il periodo aureo del progressive è stato lungo circa un lustro, e non due o tre decenni come in questo caso. E quindi, giustamente, gli artisti più intelligenti rispondono alla domanda «suonate progressive?» chiedendo che cosa esso sia, dal momento che tra suonare come i Jethro Tull e suonare come gli Opeth ne passa. Ma perché s’è detto che si tratta della risposta più intelligente? Perché spesso chi ammette di essere progressive è chi si riconosce nelle sonorità di quarant’anni fa, e viene difficile capire che cosa ci sia di progressivo nel recuperare idee ormai vecchie di quarant’anni in modo praticamente diretto e acritico. Chi invece dice di non fare progressive, per assurdo, così come potrebbero dire Mogwai o Radiohead, sono molto più progressivi di molti che direbbero di farlo. Chi si chiede cosa sia non solo dimostra di conoscere il fenomeno abbastanza largamente da rendersi conto che si tratta di un’etichetta ormai vuota e vastissima, ma anche di aver compreso l’essenza stessa del progresso: la non-definibilità, se non all’interno di un approccio continuamente risemantizzato nel suo eterno divenire.

Ed è qui che giungiamo all’idea centrale di questo articolo: il progressive non è un genere musicale, ma un approccio alla creazione musicale. Che questo approccio sia esploso, almeno nell’ambito della musica leggera, con il fenomeno settantiano del progressive rock, è un altro conto. Ma esso è poi tornato il decennio seguente con certi risultati, e ancora più negli altri due seguenti, con risultati ancora più differenziati. Ecco quindi perché sembra lecito citare il post rock e certo alternative rock: perché sono a loro modo più progressivi i Radiohead degli Spock’s Beard, nel senso che recuperano non tanto i risultati del progressive rock settantiano, quanto il suo metodo, la sua filosofia di fondo, il suo spirito eclettico e mai sazio di rinnovarsi. Emblema di questo approccio sono, guarda caso, coloro che l’hanno inaugurato al meglio: i King Crimson. Per terminare la loro storia, infatti, negli anni Novanta sono stati in grado di cambiare nuovamente faccia, pur tenendo fede alla loro missione iniziale, fino a giungere ad assumere venature metal al termine di quegli anni, e tornare di recente con formazioni assurde, come quella a doppio trio (due batterie, due bassi, due chitarre) o quella con tre batterie, due chitarre, un basso e un sassofono. Loro hanno incarnato il progressive perché sono stati in grado di rinnovarsi nelle diverse epoche, consapevoli che ciò che è innovativo oggi è obsoleto domani, e che l’unico modo per essere sempre avanti, essere sempre progressivi, è continuare a muoversi. Detto questo, se vogliamo indicare delle correnti in cui far entrare gran parte degli artisti sopracitati, proporrei di parlare di progressive per questo approccio generale, di:

  • Progressive rock (e sottogeneri come prog folk) per la sua classica incarnazione settantiana.
  • Neoprogressive (o, scherzosamente, regressive rock) per gli epigoni degli anni successivi.
  • Progressive metal (e sottogeneri come progressive death metal) per le band più pesanti nate a partire dagli anni Novanta (ma non necessariamente tutte le band metal convertitesi).
  • Postprogressive (recuperando una felice definizione data dall’etichetta Kscope) per quegli artisti che, contrapposti al neoprogressive, almeno in ambito rock, hanno recuperato non tanto i risultati del progressive rock, quanto il suo spirito, incarnandolo in infinite varianti differenti.

Tutto questo per che cosa? Solo per ribellarsi a chi continua, dopo quarant’anni, a credersi innovativo perché ripropone dinamiche o sonorità obsolete, oppure a sentirsi un ascoltatore “progressivo” perché non è capace di ascoltare altro che “le solite vecchie cose”? No, più che altro solo per cercare di mettere ordine in una classificazione assai confusa e per cercare di rispondere alla fatidica domanda «cos’è il progressive?». Risulterà comunque chiaro come, essenzialmente, gran parte della musica non-stagnante successiva agli anni Settanta (almeno in ambito rock) possa rientrare nel calderone postprogressive, svuotando di fatto questa classificazione di senso… perché in fondo, come si diceva, tutto ciò è utile solo ad orientarsi, perché di per sé la musica, fortunatamente, continua ad esistere con o senza classificazioni, le quali, il più delle volte, proprio come in questo caso, possono essere decostruite fino alla negazione del proprio senso. Ed è quindi stupido perdere tempo a riflettere con tanto ardore su queste cose, se non per meravigliarsi ogni volta di quanto incredibilmente vario e vasto sia il mondo della musica e poi gettarsi di nuovo e con rinnovata curiosità e consapevolezza nell’unica cosa che nella musica davvero conta: l’ascolto.