Siamo soliti associare gli avvenimenti felici della vita ad un valore positivo, e quelli infelici ad un valore negativo. Sembra essere un atteggiamento sensato, eppure dobbiamo tenere conto che esistono eventi infelici ed eventi infelici. Vale a dire che non tutto ciò che è male è privo di un valore positivo, così come del resto lo stesso valore negativo può assumere un connotato tutt’altro che sgradevole alla nostra sensibilità.

Per inquadrare meglio il discorso penso che sia d’obbligo il riferimento ad una pagina brillantissima (quanto forse poco immediata per chi la legga senza la giusta disposizione mentale per la prima volta) della più celebre opera di Oscar Wilde: Il ritratto di Dorian Gray. Anche se il tema è stato trattato abbondantemente da filosofi precedenti e successivi (e anche romanzieri come lui), trovo che il suo riferimento a quello che è in fin dei conti il concetto di sublime inserito in una dinamica esistenziale sia particolarmente chiaro ed espressivo.

«Spesso accade che le tragedie della vita vera si svolgano in modo tanto poco artistico da urtarci per la loro rozza violenza, la loro assoluta incoerenza, la loro assurda mancanza di significato e di stile. Ci fanno l’impressione di cose volgari, di azioni brutali, e determinano in noi un senso di rivolta. Si intrecciano però talvolta nella nostra vita tragedie che possiedono elementi estetici. Se questi elementi di bellezza esistono realmente, il fatto attrae la nostra sensibilità per gli aspetti drammatici. Improvvisamente ci accorgiamo di non essere attori, ma spettatori del dramma. O piuttosto di essere contemporaneamente attori e spettatori. Ci osserviamo e siamo commossi soltanto dalla bellezza dello spettacolo.»

Il contesto in cui compaiono le righe in questione vede il protagonista del romanzo in uno stato di profonda tristezza, giacché si ritiene responsabile della morte della ragazza che aveva amato. Con il consueto spirito da esteta, però, l’amico Lord Henry consola Dorian, facendogli notare come la vita sia talvolta condita da eventi infelici che ci feriscono più che per il loro contenuto per la loro forma volgare e anonima. Non hanno senso estetico, né alcun tipo di buon gusto. Altri eventi infelici, però, sono diversi e acquisiscono uno spessore drammatico nella nostra esistenza. Ci accorgiamo allora di essere al contempo attori e spettatori di uno spettacolo tragico-esistenziale e ne siamo avvinti, con un effetto sublime che ci porta a godere del nostro stesso dolore, in un certo senso. L’idea di vita come opera d’arte acquisisce qui il suo spessore massimo, e ci aiuta a comprendere fin d’ora il tema centrale di questa piccola riflessione.

Per molti comprendere questa dinamica potrà risultare immediato, per altri meno. Quindi è bene radicare la riflessione in un contesto più ampio, che è quello del sublime, concetto molto trattato specialmente in età romantica e che ha avuto una certa risonanza anche nell’epoca decadentista di Wilde e colleghi. Kant definisce il sublime – oserei dire in modo tanto semplice quanto piuttosto azzeccato – come un sentimento misto di piacere e dolore. Distingue tra sublime dinamico e matematico, associandolo rispettivamente ai grandi poteri e alle grandi dimensioni. Innanzi a spettacoli di cui non riusciamo nemmeno a concepire la grandiosità (esempio classico: la tempesta vista dalla spiaggia), percepiamo un misto di dolore e piacere, da un lato perché siamo consapevoli di essere insignificanti innanzi a tanta grandezza/potenza, tanto da non potercene nemmeno capacitare razionalmente, e per questo siamo umiliati; dall’altro perché comunque riusciamo ad avere esperienza di ciò (da una distanza di sicurezza), avendo così testimonianza della nostra destinazione soprasensibile, vale a dire di un qualcosa che sia cosa in sé, e non solo fenomeno. Non a caso, nel primo Nietzsche l’elemento dionisiaco, che ben rappresenta il sublime, è considerato il noumeno del mondo, il nucleo ultimo dell’essere, che mescolato in modo opportuno con l’elemento apollineo della forma e dell’individuazione fonda il mondo come rappresentazione. Ma, tornando a Kant, penso sia abbastanza semplice cogliere il sentimento a cui fa riferimento. Si tratta di un sentimento che trabocca dal nostro cuore, che non riesce ad essere contenuto entro i limiti della razionalità (e che infatti sarà impossibile approfondire in questa sede), e che ha anche i suoi risvolti quasi perversi, in quanto spesso legato a situazioni tanto potenti e spettacolari quanto distruttive (si pensi sempre alla tempesta).

La tragedia è l’incarnazione esemplare si una simile situazione. Medea che uccide i figli per vendetta, per far soffrire il suo uomo, non ha nulla di propriamente bello in sé, ma riesce comunque a compiacere l’animo sensibile, forse più di un qualunque scenario bucolico o di qualsiasi trama idilliaca. Traiamo dalle vicende di Edipo che uccide il padre per unirsi inconsapevolmente alla madre un compassionevole e talora disgustato dolore, che si mescola ad una sorta di perverso piacere, un godimento estetico che sa rendere conto della ragione per la quale spettacoli tragici, film drammatici, brani musicali malinconici e struggenti poesie sappiano emozionarci e compiacerci ad un livello difficilmente raggiungibile da qualunque altra tonalità che si possa attribuire ad una qualche opera d’arte. Nietzsche, come si accennava poc’anzi, dà a questo genere di elemento estetico un ruolo importante nella sua concezione del mondo. Tesi fondante della Nascita della tragedia è proprio che, partendo da presupposti squisitamente schopenhaueriani, il mondo sia la mia rappresentazione, che per Nietzsche è costituita dall’elemento illusorio, ma rassicurante e armonico, dell’apollineo, del bello e del sogno, mentre la Volontà (e quindi l’essenza ultima) del mondo è di tipo dionisiaco: informe, autentica, contraddittoria, dissonante… sublime! Il nostro mondo è il risultato della mescolanza dell’elemento dell’armonia e della dissonanza, così come lo era la tragedia di Eschilo e Sofocle. Deve esserci equilibrio tra le due forze, e in questo modo il mondo può essere spiegato e giustificato come fenomeno estetico: le tragedie dell’esistenza assumono un connotato artistico, quasi ludico, se valutate con questo occhio. Le dinamiche del mondo sono comparabili a quelle innescate da (e qui il filosofo tedesco si rifà a Eraclito) un bambino che gioca sulla spiaggia distruggendo e ricostruendo con innocenza le sue costruzioni di sabbia. Fa tutto parte di un gioco estetico, in cui l’elemento negativo non è il male, ma è parte della dinamica, e come tale rientra negli ingredienti richiesti dal godimento estetico, trascendendo categorie etiche di sorta. Per usare le parole di Nietzsche:

«Solo come fenomeno estetico l’esistenza e il mondo appaiono giustificati: in questo senso proprio il mito tragico deve convincerci che perfino il brutto e il disarmonico sono un gioco artistico che la Volontà gioca con se stessa nell’eterna pienezza del suo godimento.»

Non dimentichiamo che tutto questo ha solide radici nel pensiero di Schopenhauer, autore per il quale la Volontà ricopre un ruolo essenziale nella concezione del mondo, del vero mondo in particolare. La Volontà è però anche dolore, in quanto è quella forza irrazionale che ci spinge al desiderio perpetuo e insaziabile, fonte di ogni dispiacere. Siamo condannati all’infelicità per questo, cavalcando eternamente il pendolo che passa dal dolore alla noia, passando per l’effimero intervallo della felicità. L’elemento della Volontà, dunque, è un elemento intriso di dolore e sofferenza (il dionisiaco di Nietzsche), e sta proprio alla base dell’essere, sotto forma di una sorta di Uno originario e informe da cui, attraverso l’illusorio Velo di Maya (l’apollineo nietzscheano), l’uomo trae la sua realtà rappresentativa dalla parvenza di un sogno.

L’interessante passo in più che fa Nietzsche, è quello di riconoscere sì il dolore originario intrinseco al nucleo dell’essere, ma non solo: di giustificarlo esteticamente. Il mondo è una sorta di opera d’arte, un fenomeno estetico in cui anche la peggiore rappresentazione dionisiaca, in cui persino l’accordo più dissonante e la forma più disturbante, possono assumere un connotato di godimento nell’animo senziente di chi vive ed assiste a certe dinamiche. Il dolore di Schopenhauer, da cui lui trova soltanto parziali vie di fuga (se non la radicale ascesi, che però nega la vita, cosa che Nietzsche non potrà accettare), viene filtrato dall’arte e diventa in questo modo piacere. La prima via di fuga che Schopenhauer trova è proprio quella dell’arte, che costituisce una temporanea consolazione rispetto alla dolorosa realtà, e si dà il caso che in Nietzsche questa parzialità costituita dalla caducità dell’esperienza estetica riesca ad essere infine colmata. Il mondo, se inteso come fenomeno estetico, non perde il proprio elemento di dolore, ma riesce a restituircelo in modo più dolce. Lo spirito dionisiaco è capace di cogliere anche la bellezza del tragico e usarla per affermare i valori vitali, non per distruggerli, negarli o fugarli. Il pianto di dolore che sto vivendo fa male, sì, ma è fondato in un elemento che acquisisce senso estetico in un contesto più ampio, che mi fa capire come anche questa sia una manifestazione della vita, la quale va affermata, e che forse più che mai si mostra pulsante in simili occasioni. La vita diventa un’opera d’arte in cui siamo attori e spettatori, come dice Wilde, e in cui le grandi e reali tragedie esistenziali (e non le piccole sciocchezze volgari, insensate, banali e prosaiche che pur spesso ci colpiscono) arricchiscono la nostra vita e sanno essere fonte di piacere e dispiacere assieme, di un sentimento sublime, appunto. Cos’è quel pungolo infame che sembra farmi sperare, pur con assoluta innocenza e in modo del tutto pre-razionale, in uno spregevole angolo della mente, che il parente malato lasci la vita? È quel nostro perverso bisogno di qualcosa che ci scuota, che ci faccia uscire dalla mediocrità prosaica del quotidiano, che uccidendoci ci faccia sentire vivi per contrasto. È quel compiacimento di trovare nella nostra vita degli elementi che la rendano più simile ad una tragedia, più degna di essere raccontata. O, per meglio dire, è l’attrattiva della tragedia ad essere fondata in un bisogno connaturato agli uomini, che li porta a compiacersi delle cose grandi, distruttive, dolorose, forse in quanto più vicine alla loro stessa essenza dionisiaca.

Sembra dunque che possiamo facilmente trovare un nesso tra infelicità e felicità o, quantomeno, dolore e piacere, compiacimento. L’elemento tragico della vita è innegabile, e con la giusta ottica possiamo riuscire non tanto ad accettarlo, ma ad affermarlo e trarne giovamento di tipo estetico-esistenziale. La vita come opera d’arte è quindi bella sia nel bene che nel male, facendo eccezione forse solo quando non è intimamente e passionalmente vissuta, sia nel bene che nel male, quando dunque il bene o il male si trovano solo sotto le sembianze dello scialbo e del mediocre, del banale e del volgare, del neutrale, del prosaico e del piatto. I termini etici di bene e male vanno sostituiti con le categorie estetiche del gradevole e dello sgradevole, e nel primo gruppo di cose rientra sì il bello, ma può farlo anche il sublime, il triste, persino il brutto in un certo modo, e chi più ne ha più ne metta. Dunque persino quei tratti dolorosi, infelici e apparentemente sgradevoli della vita possono convertirsi in elementi gradevoli, passando appunto dal dolore al piacere, e forse persino dall’infelicità alla felicità.

Ecco dunque che nemmeno il tragico suicidio dell’amata Sybil Vane deve essere motivo di lamento da parte di Dorian Gray. Di dolore sì, certo, ma di quel dolore sublime che attesta la natura estetica della vita, che quindi va vissuto con spirito affermativo, divorandolo, e non rifiutandolo o sperando onestamente di poterlo alienare. È riduttivo augurare una bella vita a chi si ama, quando si può augurare una Vita che abbia modo di esprimersi sia in direzione apollinea che dionisiaca, che possa essere armonica e dissonante, purché sempre ricca di valore estetico. Finché è così, c’è sempre un motivo per gioire e godere, per apprezzare la vita ed affermarla. E nessuno dovrebbe sentirsi imbarazzato o perverso lungo il ponte sublime che conduce dal dolore al piacere, ma solo testimone della ricchezza della vita, che sa esprimersi in entrambe le direzioni: quella della pura bellezza e quella dell’ambiguo ma potentissimo sublime. Quest’ultimo è anch’esso un apice della vita che, pur scendendo verso il basso dell’inferno, riesce a farci sentire dalle fiamme di questo lo stesso calore che sentiremmo in quel (breve) istante in cui potremmo ergerci in alto, verso il sole… con la differenza che forse quel calore dionisiaco, al contrario di quello del dio del Sole Apollo, è anche più vicino al nucleo del mondo, alle corde della nostra natura di esseri umani sciagurati e perversi, all’eternità della dissonanza, del caos e del dolore.