Anomalisa di Charlie Kaufman e Duke Johnson è uno dei tanti film che, almeno in Italia, è passato praticamente inosservato, e quando è stato visto si è trattato spesso di una visione superficiale, di quelle che di solito termina con commenti del tipo «che razza di finale deprimente», «ma non succede niente per tutto il film», «che cosa mi sta a significare?» e via dicendo. Certo, il film non è dei più espliciti in quanto a temi trattati e trama, ma non dimentichiamo che è scritto e diretto da Charlie Kaufman, ossia uno dei più geniali sceneggiatori degli ultimi 25 anni, che ha firmato film come Adaptation (Il Ladro di Orchidee), Essere John MalkovichSynecdoche New York ed Eternal Sunshine of the Spotless Mind (criminosamente conosciuto in Italia col titolo Se mi lasci ti cancello), ossia alcuni dei film più concettualmente ricchi di sempre. Come spesso accade con questo tipo di film contenutisticamente criptici, un’assenza di esplicito significato genera una proliferazione di possibili significati ipotizzati dagli spettatori o dai critici, che cercano di dare un senso a quanto appena visto mediante le proprie idee, esperienze e sensazioni. È una delle cose meravigliose dell’arte, specialmente di quella “implicita”. Anomalisa non ha fatto eccezione, ma ben presto si è mostrata al mondo un’ipotesi molto accreditata, grazie anche ad alcuni dettagli del film che sembrano confermarla esplicitamente. Per comprenderla dobbiamo accennare alla trama del film.

Il protagonista del film è Michael, uomo di mezza età che si reca a Cincinnati per presentare il suo ultimo libro di strategia aziendale, per il quale è divenuto famoso nel settore. Lentamente ci si accorge che qualcosa non quadra non solo nell’umore perennemente grigio di Michael, ma anche nella pura esperienza cinematografica audio-visiva: tutti gli altri personaggi sono doppiati da uno stesso attore, anche se talora con una voce lievemente modificata (spesso in modo quasi ridicolo) per donne e bambini. Inoltre, essendo il film girato in stop-motion, notiamo come i pupazzi non nascondano le proprie imperfezioni e a volte addirittura si “smontino” in diretta, perdendo letteralmente la faccia. Questi aspetti a dir poco stranianti restano essenzialmente inspiegati nella trama del film. Essa infatti si sviluppa con Michael che incontra Lisa in albergo, la quale è l’unica persona ad avere una voce propria. È un’anomalia, appunto, uno spiraglio di luce e di diversità, di evasione possibile che Michael coglie al volo: lei è una donna di scarsa autostima, non particolarmente capace né bella, spesso goffa, ma per Michael tutto ciò non ha importanza e la conquista avviene facilmente. Il giorno seguente le propone di andare a vivere insieme, vuole farla sua e lei è ben felice di seguirlo, ma… proprio in quel momento, con una resa cinematografica indescrivibilmente perfetta, la voce di Lisa inizia a cambiare, e Michael inizia a rendersi conto che qualcosa sta decadendo: lei è diventata una di loro, e lui ricade nell’incubo senza fine.

L’interpretazione di cui si faceva accenno si rifà a due patologie, in particolare una che viene suggerita dal nome dell’albergo in cui si svolge quasi interamente il film: la sindrome di Fregoli. Si tratta di una malattia mentale molto rara per cui chi ne soffre crede di essere perseguitato da una stessa persona, che però si manifesta in tutte le singole persone con cui il malato ha a che fare. Tutti sono la stessa persona, e tale persona lo perseguita. Tutte le persone con cui Michael ha a che fare hanno la stessa voce, e questo è il suo modo di percepirle come un tutt’uno perseguitante. Hanno anche lo stesso viso, in linea di massima, ed è qui che la stop-motion rivela la sua maggiore funzione espressiva, così come potrebbe rivelarla nella rappresentazione di un’altra sindrome, quella di Capgras, che fa credere che le persone care siano state sostituite da replicanti, alieni o sosia (sì, avete letto bene), con esempi concreti di persone che hanno creduto a lungo di avere a che fare con robot, così come nel mondo di Michael sono tutti dei manichini, famiglia compresa, e non provano a nasconderlo. Solo Lisa, per qualche ragione, si sottrae a tutto ciò, e riesce ad alleviare la paranoia di Michael… tuttavia ad un certo punto anche lei ritorna nella massa patologica che costituisce la vita percepita da Michael, e lui ne esce sconfitto.

Questa lettura è senz’altro forte per via delle conferme implicite (ma neanche troppo) date dal nome dell’Hotel Fregoli, nonché dallo pseudonimo con cui Kaufman stesso aveva presentato la prima versione di Anomalisa, una specie di dramma teatrale in cui i tre attori (Michael, Lisa e gli altri) si limitavano a leggere da seduti un copione simile a quello del film, ovvero Francis Fregoli. La lettura patologica è resa ancora più plausibile dalla compresenza di rimandi plausibili alla sindrome di Capgras, che spiega la scelta della stop motion ancora più della sindrome di Fregoli. Tuttavia questa lettura presenta delle possibili falle, o meglio, fa sì che alcuni passaggi siano sì plausibili, ma non direttamente spiegabili all’interno dell’impianto concettuale generale. Ad esempio: perché la voce di Lisa muta proprio mentre Michael sta cercando di “ufficializzare” la loro neonata relazione? Qual’è la necessità di inserire anche la sindrome di Capgras? Perché il disagio di Michael sembra assumere il carattere di un vero e proprio delirio solo alla fine, mentre per il resto è da lui vissuto con una spassionata noia, una sorta di apatico abbandono a qualcosa che non sembra perseguitarlo, ma semplicemente non appagarlo?

La lettura alternativa che vogliamo proporre in questa sede non risponde in modo più esaustivo a tutte queste domande (né a molte altre che si potrebbero fare), e in alcuni casi spiega in modo meno convincente certi dettagli, così come la lettura patologica ne spiega altri in modo poco soddisfacente, a differenza di quella qui proposta. Nessuna delle due sembra spiegare totalmente il film in un modo coerente e completo, ma offre una visione alternativa e di tipo esistenziale anziché patologico, due piani che non è detto che non possano essere in qualche modo tra loro conciliati in una lettura che sappia essere più completa di entrambe prese singolarmente.

Michael è un uomo annoiato. Un uomo che non trova nella vita nulla che lo stimoli più, che è sepolto nella prosaicità del quotidiano, magari troppo assimilato in un lavoro che lo porta in alto ma non lo appassiona più di tanto, troppo tediato da una famiglia che non sente completamente sua, invischiato in un’accozzaglia di elementi provenienti dal passato e da un incerto futuro che lo paralizzano. In mezzo a questo marasma di staticità e noia, tutto è uguale, tutto ha lo stesso valore e la stessa forza su di lui: ogni persona è equivalente ad ogni altra, non ha nulla di stimolante, nulla di interessante, nulla di già visto: tutti hanno lo stesso volto e la stessa voce, tutti sono manifestazione della noia esistenziale di Michael, della piatta realtà incapace di toccarlo nel profondo. È un disagio che si percepisce in modo evidente nella prima metà del film, che pesa sul cuore dello spettatore proprio perché nulla accade, perché le esperienze di Michael sono un elettrocardiogramma piatto, piattissimo: non sembra nemmeno capace di spaventarsi o sentirsi perseguitato, è solo quasi rassegnato a un mondo che non gli dà nulla di ciò che cerca, anche qualora sapesse che cosa sta cercando. Mettendo tra parentesi la sindrome di Capgras risulta meno immediato spiegare le imperfezioni dei pupazzi usati per la stop motion e i momenti in cui Michael perde la faccia: in particolare, se quest’ultimo aspetto potrebbe essere visto come un momento in cui Michael cerca la sua autenticità togliendo una maschera dietro alla quale però non c’è nulla (per dirla con Pirandello, le maschere dietro alle quali inevitabilmente viviamo nascondono un’assenza di identità), il primo rimane difficilmente spiegabile sul piano concettuale… e non è detto che debba essere spiegato: potrebbe trattarsi di una necessità tecnica per l’animazione o di una scelta estetica, ma è affascinante credere che anche questo aspetto sia studiato e dotato di significato.

Poi accade finalmente qualcosa: Michael sente una voce diversa e ne conosce la padrona. È Lisa. Finalmente qualcuno si dimostra capace di uscire dalla mediocrità. Una persona schietta, un po’ goffa, ma autentica, o quantomeno in sintonia con ciò di cui Michael ha bisogno. È un’anomalia, un qualcosa che devia dalla prosaicità in cui Michael sta annegando, e che riesce a fargli assaporare, dopo tanto tempo, la forza della vitalità. Loro due, insieme, hanno creato qualcosa di unico. Lisa è anomala, è speciale, è Anomalisa, è Specialisa, unica e insostituibile, finché il loro rapporto rimane segnato da tale specialità, dall’impalpabilità, dall’incategorizzabilità… dalla specialità, appunto, dal deviare ogni definizione e sfuggire a ogni presa. Ma cosa accade? Il giorno dopo averla incontrata, Michael si lascia prendere dall’impeto e le chiede di andare a vivere insieme. Lei accetta. Ora sono compagno e compagna, e man mano che la loro relazione va definendosi nei piani di Michael, il loro essere-assieme (carattere dinamico e impregnato di possibilità) si tramuta in uno stare-insieme (carattere statico e limitante), e a questa trasformazione corrisponde il lento mutare della voce di Lisa che, con orrore di Michael, si conforma a quella di tutti gli altri. Lisa non è più un’anomalia, non è più qualcosa di inconcepibile e imprendibile, solamente accostabile e contemplabile nella sua unicità, e il loro rapporto non ha più il carattere fragile di qualcosa di unico e inclassificabile: quest’ultimo è ora una relazione, è definita e pertanto limitata, e l’anomalia si trasforma in anonimia, Anomalisa diventa Anonilisa, la poesia scompare e Michael ricade nel baratro, perché ora non c’è più niente di speciale nella sua vita, di nuovo… c’è sua moglie, il suo lavoro, i suoi figli, le sue ex-fidanzate, le sue fan, il tassista e la sua nuova compagna, che è ormai già sprofondata nell’ambito del categorizzabile, del concepibile, del quotidiano, della limitazione concettosa, e via dicendo.

Il film termina senza grandi spiragli di speranza, perché è vero che qualcosa di speciale può sempre comparire nella vita di chiunque, ma è molto raro che si riesca a mantenere il giusto equilibrio con essa in modo tale da far sì che tale specialità non sia riassorbita nella quotidianità e nel sempre-già-conosciuto. Quindi, il più delle volte, si vive come si può nella noia e nel piattume, forse dimenticando quella sensazione ormai lontana di qualcosa capace di smuoverci da dentro e di rendere la vita imprevedibile e poetica, autentica e vissuta. Michael prova a tornare alla vita di ogni giorno, ma il sapore di quello che ha perso è ancora troppo forte, e si ritrova a delirare durante la sua conferenza. Infine torna dalla famiglia dissimulando la propria soddisfazione, come il più delle volte tutti noi facciamo, ingannando persino noi stessi (ancora: la maschera?).

Che poi tutto questo sia conciliabile con le sindromi di cui sopra non è da escludere, ma in effetti si tratterebbe di un’aggiunta superflua e concettualmente non aggiungerebbe molto al significato più autentico del film, se esso fosse quello appena esposto. Insomma, si ripeterebbe lo stesso surplus concettuale che criticavamo all’interpretazione patologica per quanto concerne la sindrome di Capgras, se non peggio. Potremmo immaginare anche una convivenza tra le sindromi (o almeno quella di Fregoli, che è la più concretamente giustificata dal nome dell’albergo e dallo pseudonimo di Kaufman) e il disagio esistenziale, il che spiegherebbe forse più convincentemente come mai Lisa sfugge all’omologazione nella piatta e patologica realtà di Michael, e soprattutto perché ella ne viene riassorbita proprio mentre il loro rapporto viene ufficializzato. In ogni caso, ancora una volta, non è tanto questo l’importante: la realtà indiscutibile è che Anomalisa riesce nel suo intento artistico di far riflettere lo spettatore (se non fosse questo l’intento, avrebbe potuto fare come infiniti altri film ed esplicitare fin dall’inizio l’eventuale malattia o il disagio esistenziale, o magari anche solo sottolinearlo più chiaramente, nonché accompagnare lo spettatore per tutta la visione in modo più didascalico e chiaro) e soprattutto di far proliferare i significati intorno a se, attribuiti dal fruitore stesso e con grande libertà, in quanto non è intenzione dell’autore imporre una propria autentica visione dell’opera, ma lasciarla non del tutto definita in modo da permettere ad ognuno di vedere qualcosa di proprio nell’arte creata da qualcun altro. Il che è forse lo scopo più autentico dell’arte più alta.