Come possiamo definire una società in pace e prosperosa, i cui cittadini sono tutti felici e possiedono tutto ciò che desiderano? Immediatamente si pensa al termine utopia, la società in cui tutti vorrebbero poter vivere. Questa parola ha una genesi curiosa: fu coniata dall’inglese Thomas Moore nel XVI secolo aggiungendo al termine greco tòpos, “luogo” il prefisso ou-, “non”, creando così un bel gioco di parole, dato che la parola utopia in inglese si pronuncia esattamente come eutopia, composto di eu-, “bene”, e tòpos. Quando noi parliamo di “utopia” facciamo dunque riferimento a una società “bella”, e per questo desiderabile, ma che non esiste e che non potrà mai esistere; si può solo immaginare e descrivere questo perfetto assetto sociale in modo da renderlo una sorta di orizzonte irraggiungibile verso il quale però muoversi. Cosa sta però alla base di una utopia letteraria? La risposta è abbastanza semplice: vi è sempre, infatti, la scelta da parte dell’autore di un valore, di un principio assoluto che sia il pilastro su cui costruire l’intera società immaginaria che funziona proprio in virtù di quel valore, condiviso da tutti i suoi membri. Ogni autore sceglie il proprio valore e di conseguenza costruisce la propria utopia.
Nel mondo post-moderno vi è però un problema fondamentale: vi sono tanti princìpi morali diversi, spesso in contrasto tra loro, e ancora più applicazioni e interpretazioni di essi. Nell’epoca del relativismo non è più possibile costruire una utopia politica o sociale “pura”, ossia che non abbia sfumature negative. A pensarci bene, guardando alle utopie descritte nel passato, oggi non sempre ci appaiono più tali, anzi possono sembrarci addirittura distopie. La parola distopia ha un’origine molto più recente, rispetto alla sua controparte positiva: nasce infatti nel 1868 dalla mente di John Stuart Mill anche se conosce la sua massima fortuna dal punto di vista letterario solo nel secolo successivo. Generalmente una distopia è il luogo in cui si desidera di meno vivere, il peggior assetto sociale possibile; nasce spesso come forma di satira o avvertimento poiché descrive le estreme conseguenze nel futuro di alcune tendenze della società attuale. Gli autori delle distopie letterarie partono dunque dall’analisi della società in cui vivono e immaginano come potrebbe diventare se alcuni aspetti negativi di quella attuale venissero accentuati, oppure se li si assumessero come princìpi cardine della vita di ogni individuo e istituzione. Il meccanismo tramite il quale si immagina una utopia o una distopia è praticamente lo stesso. Questo, insieme al relativismo che impregna quasi ogni riflessione contemporanea, ha reso il confine tra i due generi letterari estremamente labile.
Il mondo nuovo di Aldous Huxley è il testo in cui probabilmente si avverte di più la difficoltà di dare un giudizio netto: nel 1932 lo scrittore britannico immagina un mondo fondato su princìpi di per sé negativi i quali danno però vita ad una società straordinariamente simile a Kallìpolis, l’utopia platonica descritta nella Repubblica. Aldous Huxley fu un personaggio decisamente particolare, un intellettuale interessato a tantissimi campi di ricerca, che vanno dal semplice umanesimo al misticismo e alla parapsicologia fino all’uso di allucinogeni. Oltre alla sua poliedricità, quello che colpisce sicuramente anche chi si dedichi ad una lettura superficiale delle sue opere sono le intuizioni e le previsioni del mondo futuro, delle quali lo stesso Il mondo nuovo è un esempio straordinario e anche, per certi versi, inquietante.
Il Mondo Nuovo è una società perfettamente ordinata, divisa in cinque classi sociali disposte gerarchicamente i cui membri ottengono diritti e doveri in base alle loro capacità: gli alfa hanno i ruoli di direzione e governo, i beta hanno incarichi amministrativi senza la responsabilità del comando; le tre classi inferiori hanno compiti più pratici e manuali, lavori più o meno pesanti a seconda della loro intelligenza: se ai gamma e persino ai delta è richiesta un minimo di preparazione e di progettazione, gli epsilon devono occuparsi dei lavori più umili nelle condizioni più dure. Le classi sono perfettamente immobili e all’interno di esse vi è solo una distinzione tra plus e minus, a seconda dell’efficacia con cui svolgono il loro ruolo; vi è anche un forte criterio di predestinazione: già alla nascita un individuo è inquadrato nella propria classe sociale in cui resterà fino alla morte. Con questa forte gerarchizzazione della società ci si potrebbe aspettare un pesante scontento popolare e, di conseguenza, un controllo poliziesco molto stretto, ma non è così: ogni cittadino del Mondo Nuovo è consapevole di dover rimanere un membro della propria classe sociale, i cui compiti corrispondono esattamente alle sue capacità, per il bene dell’intera comunità ed è soddisfatto da ciò. Ogni abitante non desidera altro che fare quello che fa, anzi gli fa orrore l’idea diventare un membro di un’altra classe poiché sa che non potrebbe occuparsi efficacemente delle responsabilità connesse a quel ruolo. Ognuno è dunque contento di quello che possiede e di quello che fa, non ha preoccupazioni ed è sempre felice, pur avendo degli obblighi nei confronti della società. Quello che Huxley descrive ricalca in molti punti l’utopia platonica di Kallìpolis e infatti entrambe sono basate sulla stessa concezione della giustizia, ossia quella descritta dalla locuzione latina unicuique suum, “a ciascuno il suo”. Come Huxley, anche Platone descrive una società divisa in classi, ciascuna con il proprio ruolo nei confronti della comunità; le classi rispondono alle naturali differenze tra gli uomini, dovute alla preponderanza di una delle funzioni dell’anima. Platone spiega infatti che l’anima si compone di tre parti e, a seconda che in un individuo domini una di queste, egli avrà una particolare natura: se a dominare è l’anima concupiscibile, preposta ai desideri, l’individuo sarà parte della classe dei lavoratori; se a dominare è la parte irascibile, sarà parte della classe dei guardiani-guerrieri; se a dominare è invece la parte razionale, la persona sarà parte della classe dei governanti-filosofi. Questa distinzione non è prodotta dagli uomini bensì dalla Natura stessa, è insita nell’essere umano: dunque, fin dal momento della nascita, ogni individuo è membro di una classe sociale predeterminata.
Tra Mondo Nuovo e Kallìpolis vi sono dunque aspetti straordinariamente simili, non soltanto riguardo all’organizzazione del corpo sociale ma anche relativamente ad aspetti minori come la sparizione delle famiglie: nella società di Huxley non esistono più famiglie e ognuno conta come individuo appartenente alla propria classe, mentre Platone sostiene che sia solo la classe dei filosofi a dover essere interdetta dall’avere una famiglia. Viste tutte queste analogie, viene da domandarsi come mai La Repubblica sia definita “utopia” mentre Il mondo nuovo una “distopia”; osservando le due società colte nella loro piena realizzazione si potrebbe dire senza problemi che esse sono entrambe utopiche. La differenza fondamentale sta nel modo in cui viene “costruito” il Mondo Nuovo, il quale è infatti frutto di una produzione artificiale e non deriva direttamente dalla natura.
La divisione in classi è ottenuta artificialmente in due fasi: una fase preparatoria, durante la gestazione, e una fase definitoria, durante la prima infanzia. La riproduzione umana avviene in serie secondo quote stabilite annualmente dai Grandi Coordinatori, gli individui alfa plus che governano il Mondo Nuovo, e si sviluppa interamente in provetta. La riproduzione deve essere extra-uterina essenzialmente per due motivi: il primo è per determinare la sparizione delle famiglie, che violano il principio secondo cui “tutti appartengono alla comunità”, mentre il secondo è che in questo modo si permette la manipolazione dei feti. I diversi gradi di intelligenza, che determinano l’appartenenza ad una classe, non sono causati dal dominio di una parte dell’anima ma vengono ottenuti creando condizioni favorevoli o sfavorevoli durante lo sviluppo degli embrioni: gli alfa sono coloro che durante la loro gestazione hanno avuto le migliori condizioni che la tecnologia potesse offrire; i feti epsilon invece vengono esposti al freddo, annacquati con alcool e sottoposti ad altri fenomeni che causano loro ritardo mentale. Per quanto possa sembrare simile, Huxley non immagina assolutamente una sorta di ingegneria genetica, dato che nel 1932, data di pubblicazione del romanzo, ancora non si conosceva nulla del DNA. Tramite un intervento diretto della tecnica sulla genesi dell’uomo, Huxley risolve il primo problema che l’utopia platonica lascia irrisolto: in questo modo la distinzione tra classi è reale e impressa nel corpo stesso dell’individuo, non è più fondata su qualcosa di immateriale e indefinito come l’anima per Platone.
La seconda fase riguarda invece il ruolo dell’educazione: una volta nati i bambini vengono divisi nelle loro classi e viene loro insegnato ad essere membri di quella frazione della comunità. Tramite l’ipnopedia, ossia la continua ripetizione nel sonno di slogan, i bambini vengono condizionati ad essere felici nella loro condizione: agli epsilon si insegna che è bello poter lavorare senza alcuna responsabilità, che non è loro compito dare ordini ma è loro compito solo obbedire, perché chi dà gli ordini è “più bravo” di loro a farlo. Tramite questo condizionamento, ogni individuo, una volta cresciuto, sarà soddisfatto del suo ruolo, lo svolgerà senza problemi perché questo lo rende felice e non desidererà mai cambiare la sua condizione. Inoltre, per ogni piccola infelicità causata da eventi contingenti, a tutti gli abitanti del Nuovo Mondo viene prescritto il Soma, una droga sintetica che provoca euforia, in modo che non possano mai sentirsi a disagio. In questo modo si risolve anche il secondo grosso problema della trattazione del filosofo ateniese: le argomentazioni proposte nella Repubblica non sembrano infatti convincerci del tutto che i cittadini di Kallìpolis siano talmente soddisfatti e felici dell’organizzazione dello stato da non voler mai tentare una scalata sociale.
Platone nel suo dialogo vuole descrivere una vera e propria utopia, che non sarà mai realizzabile, mentre Huxley ci dà tutti gli strumenti per costruirla da cima a fondo: si potrebbe dire che Huxley descrive una sorta di “platonismo reale”, ossia le condizioni pratiche attraverso cui la teoria ideale descritta nella Repubblica può essere realizzata nel nostro mondo. Tralasciando, per mancanza di spazio, le riflessioni relative al carattere capitalista e industriale del Mondo Nuovo, possiamo guardare al doppio meccanismo di manipolazione dei feti e condizionamento dei bambini, ossia il procedimento tramite cui si crea l’organizzazione, l’ordine ma anche la felicità, per trovare gli elementi che ci spingono a giudicare “distopico” il romanzo di Huxley. Cercando dei princìpi generali possiamo indicarne tre che colpiscono la nostra sensibilità di uomini moderni, ossia la completa abolizione delle famiglie, il controllo totale che esercita lo Stato su ogni aspetto della vita dei cittadini e la limitazione della libertà umana imposta dal condizionamento. La questione, la sfida proposta da Huxley, diventa molto semplice da analizzare ma praticamente impossibile da dirimere; si tratta infatti di scegliere cosa si preferisca: se si voglia vivere felici senza preoccuparsi del modo in cui è prodotta questa felicità, oppure se si ritengano fondamentali i princìpi violati dalla genesi umana in Huxley. Chi sceglie la seconda opzione non potrà mai ritenere desiderabile vivere nel Mondo Nuovo e dunque etichetterà il romanzo come distopia. Vi può essere però anche chi ritiene che il “fine” verso cui tutte le decisioni del governo del Mondo Nuovo sono rivolte, ossia la felicità di tutti i suoi membri, sia molto più importante del “mezzo” attraverso cui è prodotto: questi lettori daranno un giudizio più benevolo alla società descritta dall’opera. Bisogna infatti notare la finezza del romanzo di Huxley: in esso non esiste un dittatore sanguinario o una società estremamente oppressiva come nelle distopie “classiche” (1984 o Fahrenheit 451, per esempio) poiché ogni azione è volta a rendere i cittadini felici; lo Stato è sì un’entità suprema contro cui non ci può ribellare ma la sua prima preoccupazione è il benessere dei suoi abitanti.
Certamente dei tre aspetti negativi il terzo, la limitazione della libertà umana, è molto più difficile da accettare perché “programma” la felicità umana, dà ad essa una definizione precisa che poi lo Stato si impegna a realizzare, sapendo esattamente cos’è. In questo modo però sorge una domanda molto inquietante su cui dovremmo tutti riflettere: individui privi della libertà di scelta, in questo caso della libertà di realizzarsi autonomamente tramite una ricerca individuale della felicità, sono ancora “esseri umani”?
Immagine in copertina: Maurits Cornelius Escher, Giorno e Notte, Incisione per stampa