La storia dell’arte si sviluppa di pari passo con la storia dell’uomo, ma fino alla fine dell’Ottocento, il concetto di fondo non muta mai in modo essenziale: l’arte è quasi sempre mimesi, è imitazione della natura, è il tentativo di catturare l’attimo naturale e cristallizzarlo in un’immagine che possa permanere eternamente. Anche in questo caso, tutto cambia con l’arrivo del Novecento. Non ha più senso l’arte come mimesi, in un’epoca in cui per catturare l’attimo esiste uno strumento apposito e precisissimo come la macchina fotografica, e questo è ancor più vero se nella stessa epoca nasce anche il cinema. Con l’Espressionismo, il taglio è netto: un distacco definitivo rispetto al passato, mediante la rappresentazione di una realtà spesso fortemente distorta e filtrata dalla mente umana, con una potente valenza espressiva. Ma non è che l’inizio di una lunga serie di avanguardie via via più estreme che si svilupperanno nei decenni successivi. Una di esse è il Dadaismo, prima delle tre correnti che andremo analizzando in questo e altri due incontri monografici, legate dal filo conduttore del tema del silenzio, sempre inteso come espressiva auto-privazione da parte di una forma artistica del suo principale canale espressivo, anche se in questa prima tappa la negazione sarà più concettuale che formale, a differenza delle seguenti due, ossia il Suprematismo e lo Spazialismo.

Dada. Cavallo a dondolo, in francese, ovvero un totale non-senso derivato da un atto casuale (doveva essere il nomignolo per una cantante) che incarna perfettamente lo spirito del movimento in questione, immortalandolo già nel suo nome. Ma anche due sillabe infantili di semplicità assoluta, qualcosa di primitivo ed insensato. O ancora, una scettica ripetizione del da – “sì” – russo. Fondamentalmente, comunque, l’idea è che il nome “Dadaismo” non vuole rappresentare nulla, perché il Dadaismo è prima di tutto negazione. Negazione di significato, negazione di arte, arte nonsense e rivoluzionaria. Con “Dada” si può designare in generale il movimento culturale che nasce in Svizzera (Zurigo) da un gruppo di giovani che, contrari alla Prima Guerra Mondiale, si rifugiano nel neutrale stato dei cantoni. Il loro punto di ritrovo è il locale “Cabaret Voltaire“, dal cui nome nasce la sopracitata compagnia teatrale, ma che sarà anche la culla del movimento Dada. Si tratta di un luogo d’intrattenimento culturale, tra musica, danza, letture e dibattiti.

Il risentimento per la Grande Guerra, condiviso da tutti all’interno del gruppo di intellettuali, li porta ad immaginare, come unica risposta ad un’epoca talmente irragionevole da rischiare di portare l’Europa civile all’autodistruzione per motivi nazionalistici, un’arte totalmente priva di senso, logica e destino. Dal momento che la realtà è talmente irragionevole e irrazionale da sembrare governata da pura casualità, perché non far sì che anche l’arte si basi su canoni simili? Il caso è quindi un tema fondamentale, lo stesso caso che, solo lui, può aver portato ad un orrore come la Grande Guerra. È un rigetto provocatorio nei confronti delle scelte discutibili delle nazioni, della cultura imposta da entità che lottano per l’autodistruzione, dell’arte che da sempre è stata al servizio dei potenti e che, ora più che mai, deve ribellarsi alla cultura borghese nazionalista, ipocrita e perbenista, che ha fallito anche nel tentativo di preservare la pace. Si tratta dunque di un atto di forte difesa estetica contro le ipocrisie della società e la carneficina della prima guerra mondiale. E si tratta anche di un’arte appunto contro la borghesia, arte che deve essere libera non solo dai potenti, ma anche che si deve porre fuori da ogni controllo, allontanandosi dalla mentalità utilitaristica e da ogni criterio finalizzante tipico della società borghese. In questo modo il Dadaismo è fatto di gesti che vogliono rompere con il gesto quotidiano, inteso come gesto rispondente ad un fine, per basarsi invece su un semplice canovaccio che sia in grado di rompere il binomio causa-effetto, con l’unica finalità di portare alla luce zone rimosse e fantasie non vissute, appartenenti al profondo.

«Scrivo un manifesto e non voglio niente, eppure certe cose le dico, e sono per principio contro i manifesti, come del resto sono contro i principi (misurini per il valore morale di qualunque frase). Scrivo questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie, in un unico refrigerante respiro; sono contro l’azione, per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono né favorevole né contrario e non do spiegazioni perché detesto il buon senso. DADA non significa nulla» (T. Tzara, Manifesto del Dadaismo)

Se dovessimo individuare un esponente “massimo” nel movimento Dada, è probabile che la nostra scelta cadrebbe su Marcel Duchamp. È Duchamp a ideare il ready-made, termine usato per indicare il tipo di opera d’arte che fa uso di oggetti preesistenti, spesso tratti dalla vita quotidiana e senza alcuna finalità estetica. Oltre al primordiale quanto fondamentale Ruota di bicicletta (1913), che riesce a rendere inutili sia la ruota di bicicletta all’aria che lo sgabello bucato in cui è infilata, un emblematico esempio di ready-made è l’oggetto proposto da Duchamp in occasione della dichiarazione fatta nel 1917 da parte della Society of Independent Artists che stabilisce i canoni di esposizione dell’opera d’arte, come il fatto che debba essere firmata e datata dall’artista. Per tutta risposta, Duchamp si procura un orinatoio di porcellana, fa in modo che rispetti tutte le regole imposte dall’istituzione (firmandolo con lo pseudonimo di Richard Mutt, nome a cui sono attribuiti svariati significati, per rimanere anonimo e non influenzare la reazione all’opera) e di conseguenza proclama in modo del tutto logico di aver prodotto un’opera d’arte: Fontana (1917). Questa è la dimostrazione che i canoni generalmente e ufficialmente accettati per la definizione di opera d’arte sono applicabili anche ad oggetti di uso comune e volgari. Si tratta dunque di una distinzione ambigua, forse inutile, la cui assurdità è amplificata dal fatto che Duchamp spesso replicò i suoi ready-made, sostenendo che tutti avessero lo stesso valore artistico. Ne consegue peraltro che la sostanza dell’opera è la sua concezione intellettuale, svalutando la sua esecuzione e la sua natura fisica. Assume quindi un ruolo fondamentale anche l’interpretazione che ogni fruitore si costruisce, e a tal proposito Duchamp fu sempre molto rispettoso delle opinioni altrui in merito alla sua stessa arte, attenendosi sempre a quello che viene ricordato come il “silenzio” (guarda caso) di Duchamp, ossia il suo rifiuto di commentare le interpretazioni inerenti alla sua arte.

Anche Man Ray (1890-1976), altrimenti interessato perlopiù alla fotografia dopo un’iniziale simpatia per il Cubismo, inizia ad interessarsi al ready-made, producendo ad esempio Dono (1921), ossia un ferro da stiro munito di punte acuminate che, impedendogli di passare sui vestiti senza trafiggerli, lo rende ampiamente inutile e privo di senso pratico. O forse lo scopo di Man Ray era quello sì di privare il ferro da stiro della sua utilità convenzionale, conferendogli però un nuovo ruolo? Ma è un ruolo che possiamo intuire vagamente e che rende l’oggetto affascinante.

Il Dadaismo sembra dunque prendere piede in modo sempre più consistente, tuttavia già Duchamp stesso si rende però conto di un fatto non da poco, in grado di minare alle radici l’ideologia Dada: la negazione dell’arte auspicata dai dadaisti, il silenzio espressivo, potrà anche essere stata da un certo punto di vista raggiunta, ma poi, di fatto, l’arte non muore. Spiegherà in modo cristallino Duchamp nel 1945:

«Un ateo è un uomo religioso quanto un credente, e un anti-artista è altrettanto artista quanto un artista»

Tant’è vero che alcuni artisti Dada inizieranno ad inserire un significato socio-politico piuttosto esplicito nelle proprie opere e rifiuteranno in parte il canone dell’antiestetica, giacché l’idea iniziale di negazione assoluta dell’arte sembra ormai lontana dall’essere raggiungibile. Nel 1924, Tristan Tzara fa passare alla storia il movimento da lui teorizzato come prima fra tutte le avanguardie a morire per eutanasia da parte del suo stesso teorico. Molte idee del movimento, tuttavia, confluiranno nelle nascenti correnti del Surrealismo, oppure in altre meno rigorose dell’Astrattismo.

Le idee di casualità e di ready-made verranno oltretutto riprese negli anni Sessanta con il Nouveau Realisme da artisti come Christo (1935) o Piero Manzoni (1933-1963). Quest’ultimo, in particolare, oltre al celebre Merda d’artista (1961) un ready-made chiaramente ispirato al Dadaismo e contenente i suoi escrementi, in particolare realizzerà la rilevante serie degli Achromes, con cui riuscirà ad avvicinarsi quanto mai all’idea di arte negata-liberata, realizzando opere che consistono in tele imbevute di caolino liquido e colla – il materiale risulterà invero variabile, tanto che Manzoni riassume citando tra i materiali usati: cuciture a macchina, cotone idrofilo, polistirolo espanso, vernice fosforescente, cobalto cloruro, paglia, plastica, pallini pelosi e di ovatta, nuvole, fibre naturali o artificiali – e lasciate asciugare in modo del tutto autosufficiente rispetto all’artista. Tali opere non vogliono significare altro che loro stesse, come anche le eventuali linee che possono talvolta solcarle. Lo stesso si può dire delle opere monocrome di Yves Klein (1928-1962), peraltro ammirate dallo stesso autore degli Achromes, che tuttavia rifiuta la dimensione di espressione personale e di studio del colore di Klein. Manzoni va oltre, infatti, perché l’opera prima di auto-crearsi era un nulla, non esisteva. E come prima non significava nulla, ora che esiste vuole significare soltanto questo:

«Immagini quanto più possibili assolute, che non potranno valere per ciò che ricordano, spiegano esprimono ma solo in quanto sono: essere»

In breve, l’idea dell’artista milanese è quella di considerare l’arte come documento dell’avvenimento di un fatto artistico generato da un gesto. Il quadro, in pittura, è lo spazio di libertà concesso al pittore, che contaminandolo con soggetti e colori non fa che restringerlo, limitandosi. Lo stesso vale per le emozioni: similmente a John Cage, Manzoni elimina tale aspetto dall’arte, distanziandosi in questo modo anche da artisti informali come Fontana, Burri e Pollock, che egli pur stimava. Il processo di estraniazione dell’arte dall’umano e dal materiale porterebbe, secondo Manzoni, a quell’immagine prima, pura, archetipica in modo quasi presocratico, che è al centro della sua ricerca artistica. Tale immagine è peraltro significativa per l’intero genere umano, in quanto appunto archetipica e presente in un inconscio collettivo, che rende possibile la comunicazione artista-operafruitore (ed è qui diretta l’influenza di Jung). Le influenze Dada su Manzoni sono quanto mai evidenti nel Manifesto contro niente per l’esposizione internazionale di niente (1960), in cui si leggono frasi che non necessitano neanche di essere commentate:

«Una tela vale quasi quanto nessuna tela. Una scultura è buona quasi quanto nessuna scultura. […] La musica è piacevole quasi quanto nessuna musica. […] Qualche cosa è quasi niente (nessuna cosa). […] Vendita di niente, numerato e firmato. […] All’inaugurazione non prenderà parola nessuno. Su questo catalogo non è riprodotto niente».

Per concludere, lasciamo che sia Manzoni a riassumere con parole proprie il significato che attribuisce ad un’opera come uno dei suoi Achromes:

«Di solito i pittori si mettono di fronte alla tela come questa fosse una superficie da riempire di colori e forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile. Quando il quadro è finito, una superficie d’illimitate possibilità è ridotta a una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché, invece, non vuotare il recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce piena e assoluta?»

Manzoni morirà un anno dopo aver pronunciato tali parole, lasciando in sospeso il suo percorso artistico singolare, che col suo silenzio espressivo non si accontenta di creare un’essenza (come fece Malevič, e lo vedremo), né di esprimere qualcosa mediante opere informali in cui l’importante è il gesto, il segno e la materia (come verrà fatto, vedremo anche questo, con l’Arte Informale), ma prova a liberare l’arte dai vincoli umani, dandole vita nuova, senza affidarle alcun valore umano. La ricerca dell’essere in quanto tale, auto-generato, eterno, insensato.

I dadaisti provano dunque a privare l’arte di se stessa, tentano di concretizzare un silenzio e riuscendoci falliscono: il silenzio comunicativo ci comunica il forte messaggio della negazione dell’arte e diventa arte a sua volta. L’arte, comunicandoci la sua morte, ci ricorda di essere più che mai viva.

«Dada è come le vostre speranze: niente. Come il vostro paradiso: niente. Come i vostri idoli: niente. Come i vostri capi politici: niente. Come i vostri eroi: niente. Come i vostri artisti: niente. Come le vostre religioni: niente.» (F. Picabia)