Uno di questi ultimi giorni, dopo aver ricevuto una specie di ultimatum da due sodali, i quali mi davano all’incirca un’ora di tempo per decidere se andare con loro a vedere l’ultima pellicola di M. Night Shyamalan, mi sono ritrovato a fare i conti con un curioso regista. Questo mi era stato presentato dai suddetti amici come un perfezionista, almeno nei suoi film migliori, in grado di girare ottimi lavori, quasi tutti accomunati, però, dal medesimo difetto: un pessimo finale. Indeciso sul da farsi mi appellai al trailer e… Psycho. Dopo circa un minuto sullo schermo mi si profilò davanti Kevin (James McAvoy) in tenuta da Mrs. Bates, che, con voce suadente, provava a calmare le tre ragazze da lui rapite alcuni fotogrammi prima. Dopo questa scena ricordo di aver interrotto il trailer e, in fretta e furia, di aver chiesto ai due di portarmi con loro, ad ogni costo.

Mi lanciai in questa impresa con ottime aspettative. Già nel cercare su internet il trailer mi era apparso associato il nome di Daniel Keyes, autore del capolavoro Una stanza piena di gente.
Spinto dal mezzo trailer ad associazioni sempre più forti tra libro e film mi sono convinto dell’efficacia del progetto. Efficacia di cui ho dubitato parecchio in seguito. Ma prima di addentrarmi in opinioni e ipotesi interpretative mi pare utile (consigliare la visione prima di leggere quanto segue e) fare un punto sul regista e sulla trama del film. Manoj Nelliyattu Shyamalan è un regista, sceneggiatore, attore e produttore cinematografico statunitense, nato in India. Lanciato nel 1999 da Il sesto senso, film che ricevette sei oscar, tra cui quello alla regia, la carriera di Shymalan sarà da quel film in poi un sali-scendi, dalle vette del successo all’odio della critica. Split, ultima fatica del suddetto, è la storia di Kevin, caso di disturbo dissociativo dell’identità (DDI), il quale mostra alla sua psichiatra, la dottoressa Fletcher, ben ventitré personalità. Oltre a queste ventitré ne rimane una nascosta, in attesa di “venire alla luce”, ovvero prendere il controllo di Kevin. Kevin, guidato dalle sue personalità meno stabili, al fine di favorire il sorgere della ventiquattresima personalità organizza una specie di rito sacrificale. A questo fine rapisce tre ragazze adolescenti tra cui Casey (Anya Taylor-Joy, nota per la sua interpretazione in The Witch), ragazza che si scoprirà condividere con Kevin un passato di violenze domestiche (Kevin subì violenze dalla madre, Casey dallo zio). In Kevin nasce una guerra per la sopravvivenza, sia nella sua mente, sia con le ragazze, le quali tentano vanamente la fuga. La ventiquattresima personalità nel corso del film prende il sopravvento su Kevin e sfalda progressivamente le barriere della sua personalità.

Appena finito il film tutti i pregiudizi che i suddetti compagni mi avevano aiutato a costruire con i loro discorsi emersero e si coalizzarono contro il mio senso critico. La svolta fantascientifica a fine pellicola, unita alla frustrazione per non aver avuto i mezzi, in quel momento, per comprendere la citazione a Unbreakable – Il predestinato, sbattuta in faccia al pubblico nell’inquadratura finale, attivò in me quel meccanismo di autodifesa in grado di portarmi a elaborare discorsi colmi di parole al vetriolo e a condurmi verso un necessario rigetto per il film. In seguito a una razionalizzazione o, perlomeno, a un tentativo di dare un senso a quella “Kehre”, mi si prospettò davanti una possibilità interpretativa tesa a riabilitare quello che altrimenti sarebbe entrato nella mia memoria come paradigma di un finale disastroso. Ma cosa c’è che non va nel finale? Cosa c’è di cosi scandaloso in una svolta fantascientifica? Kevin, diventato oramai l’onnipotente Bestia, si esibisce in una escalation di mosse che lo rendono un mix tra l’Uomo Ragno, Flash Gordon e Hulk. La situazione raggiunge l’acme quando Casey, braccata, spara alla Bestia (Kevin) senza scalfirla minimamente. Il film, costruito, prima della svolta, come un thriller avvincente e, quasi, mozzafiato, scivola verso un genere quantomeno incompatibile nella forma proposta, o perlomeno questo è quanto credevo a fine film, distruggendo le aspettative. Tuttavia, interrogandomi sul finale con fare compassionevole, deciso a dare una possibilità al Shaymalan, mi tornò in mente un altro film che di primo acchito non mi convinse a causa del finale ambiguo e inusuale per una pellicola di quel genere: Babadook. Questa pellicola (da visionare per una migliore comprensione del parallelismo), su cui non mi dilungherò molto, si evolve verso il finale, mutando le sembianze del film da semplice jumpscare a riflessione sulla convivenza tra bene e male, termini che assumono in tale film una sfumatura ambigua, grazie all’acume registico di Jennifer Kent. Il significato profondo del finale lo compresi, anche in quel caso, solamente a posteriori.

Riflettendo su ciò mi chiesi se la svolta, molto diversa e più radicale rispetto a quella in atto in Babadook, portata avanti da Shymalan potesse essere, nella sua atipicità, orientata a un fine più profondo di quello da me colto di primo acchito, come nel film della Kent. Un fine che magari si identifica con la volontà di individuare e delineare mediante l’iperbole del DDI, data dai superpoteri derivanti dalla ventiquattresima personalità, la condizione di ambiguità data dalla possibilità di individuare nella patologia oltre a forme di sofferenza, forme di diversità. Uno stimolo alla formazione di questa mia attuale ipotesi pervenne, in particolare modo, dalle riflessioni della psichiatra di Kevin. Questa, figura che tende a “romanticizzare” la condizione dei suoi pazienti (ciò lo si può evincere dalle convinzioni esposte durante la sua videoconferenza sul DDI), pone l’accento sulla condizione di diversità del malato e non tanto su quella del malessere. Progressivamente Mrs. Fletcher arriva a convincersi, forse indotta dalla condizione di isolamento in cui vive, a credere quasi incondizionatamente nei suoi pazienti. Il regista pone l’accento su questo aspetto in particolare in una scena in cui la psichiatra dialoga con la vicina di casa. Questa espone le sue perplessità riguardo ai pazienti di cui si occupa la vicina senza addurre motivazioni particolarmente sensate e dando prova del suo bigottismo. Shymalan evidenziando determinate caratteristiche produce un ritratto grottesco della vicina di casa, ritratto presumibilmente in grado di convincere la psichiatra a rafforzare le sue convinzioni.

A conti fatti, a mio avviso, una chiave interpretativa del film, non l’unica possibile visto le varie sfaccettature della pellicola, può essere quella della condizione di ambivalenza che una malattia mentale come il DDI può godere all’occhio di alcune lenti interpretative. La tesi della malattia mentale come disturbo e, specialmente, la sua contraria prestano il fianco a varie critiche. Guardando, per dirla con Burroughs, il pasto nudo, ritengo poco proficuo pormi a sostegno di posizioni, la cui trattazione richiederebbe una padronanza nell’ambito delle psicopatologie che, sfortunatamente, non posseggo. Ritengo tuttalpiù utile un appello a una fonte attendibile come il DSM. Il Manuale Diagnostico Statistico dei disturbi mentali (DSM) è uno strumento utile per farsi un’idea della caratterizzazione di tale disturbo. La caratterizzazione proposta è presa come riferimento da una gran parte dei medici, psichiatri, psicologi di tutto il mondo, sia nella pratica clinica che nell’ambito della ricerca.
Secondo i criteri del DSM V, il disturbo dissociativo dell’identità è caratterizzato da:
•Presenza di due o più identità distinte, descritta in molte culture come un’ esperienza di possessione spiritica. Questo comporta una forte compromissione della continuità del senso di Sé, accompagnata da alterazioni negli affetti, nei comportamenti, nella coscienza, nella memoria, nella percezione, nella cognizione e nelle funzioni senso-motorie. Queste alterazioni possono essere auto-riferite o riportate da terzi.
•Lacune ricorrenti nel richiamo di eventi quotidiani, di informazioni personali importanti e/o eventi traumatici (in contrasto con l’ordinario oblio)
•I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione sociale, lavorativa o di altre importanti aree di funzionamento.
•Il disturbo non fa parte di una pratica culturale o religiosa largamente accettata.
•I sintomi non sono attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o di un’altra condizione medica.

Concludendo, mi par giusto notare come quella da me proposta sia solo una delle interpretazioni, tra le possibili, per un film come Split. Come accade per molte pellicole, specialmente in quelle più ricche a livello di contenuto, si verifica un fenomeno analogo a quello della parallasse. Quando si verifica tale fenomeno In parole povere l’oggetto sembra spostarsi rispetto allo sfondo con il cambiare del punto di osservazione.  Allo stesso modo in Split la prospettiva e il background culturale di ognuno permettono di considerare rilevanti determinati aspetti piuttosto che altri permettendo, rimanendo comunque nel ventaglio delle finite possibilità proposte dalla pellicola, di assecondare un punto di vista piuttosto che un altro. Questo, a mio avviso, è uno degli obiettivi a cui un grande film deve ambire e che rendono Split, a suo modo, da visionare.