Ottimismo socratico, positivismo, fiducia nelle capacità dell’uomo e nella scienza. Tutte questioni con una radice comune, quella che Nietzsche imputa a Socrate, allegando pesanti critiche: un odio spinto al punto tale da non risparmiarsi osservazioni sulle fattezze poco gradevoli del viso di Socrate nelle sue lezioni sui filosofi preplatonici. Un astio alimentato dagli eccessi dell’epoca positivista, la più sconfinatamente ottimista sulle possibilità dell’uomo e della scienza, che esaltava molti e nauseava altri (tra cui Nietzsche), non solo nel panorama filosofico, ma anche in quello letterario. È il caso di un noto autore russo dello stesso periodo. Proprio con un’allusione a Socrate, infatti, si apre il settimo capitolo della prima sezione di Memorie dal Sottosuolo, uno dei capolavori di Fëdor Dostoevskij, datato 1864:

«Oh, ditemi chi fu il primo a dichiarare, chi fu il primo a proclamare che l’uomo fa delle canagliate unicamente perché non sa quali sono i suoi veri interessi; e che se invece lo si illuminasse, se qualcuno gli aprisse gli occhi su quelli che sono i suoi veri, normali interessi, l’uomo smetterebbe subito di far le sue canagliate, diverrebbe subito buono e nobile, giacché essendo ormai illuminato e comprendendo perciò quale sia il suo personale vantaggio, saprebbe appunto riconoscere tale vantaggio nel bene: e siccome è cosa risaputa che nessun individuo potrebbe mai agire consapevolmente contro il proprio vantaggio, ne consegue che si comincerebbe a fare il bene, diciamo così, per necessità?»

Il riferimento all’etica socratica pare evidente, ma cosa c’entra questo con la scienza? Il collegamento risulta più chiaro procedendo con la lettura: il narratore del romanzo, infatti, fa notare come gli uomini di ogni tempo, infinite volte, pur comprendendo scientemente quale fosse il proprio vantaggio, gli hanno voltato le spalle, cercando una via nell’oscurità. Ma perché ciò? Perché tutti quegli elenchi di presunti vantaggi («calcolati con formule scientifico-economiche») che il progresso assume di poter stilare, ne dimenticano uno che, disgraziatamente, manda all’aria tutti gli altri, distrugge le classificazioni e i sistemi razionali su cui il progresso si basa. Le fattezze di questo “vantaggio” risultano presto più chiare:

«Sarà la scienza stessa a insegnare all’uomo […] che in effetti egli non ha né una volontà né alcun capriccio, e non ne ha nemmeno mai avuti, poiché egli non è altro che una sorta di tasto di pianoforte o spinotto d’organetto che dir si voglia; e che per di più a questo mondo ci sono anche le leggi della natura; dimodoché, qualunque cosa egli faccia, non è per volere suo che avviene, bensì di per sé, in base alle leggi della natura. Di conseguenza, sarà sufficiente svelare codeste leggi della natura perché in futuro l’uomo non debba più sentirsi responsabile delle proprie azioni, e la vita divenga perciò straordinariamente facile.»

Appare ora evidente che si parla del libero arbitrio, la cui soppressione ad opera del determinismo naturale non avviene come effetto collaterale del progresso scientifico, ma addirittura come fine ultimo di esso, in un certo senso, per sgravare l’uomo dalle responsabilità. Tutto, procede Dostoevskij, sarà inseribile in tabelle matematiche, prevedibile e computabile… noioso, direte, sì, ma sensato! La volontà umana quindi non farà più eccezione alle leggi della natura. Si noti che l’aporia tra libertà e natura sia uno dei punti centrali del dibattito contemporaneo sul libero arbitrio: come può l’uomo ritenersi libero in una realtà naturale deterministica? E perché vuole a tutti costi ritenersi libero? Non potrebbe essere vantaggioso, come poteva trasparire dalla citazione di cui sopra? La risposta è che «l’uomo è fenomenalmente stupido» e quindi potrebbe ben darsi che, raggiunta una simile situazione di sistematizzazione, qualche gentleman arrivi e dica:

«Lo diamo o no un bel calcio, una volta per sempre, a tutta questa sensatezza che abbiamo qua, così da mandarla in briciole, solo perché se ne vadano al diavolo tutti questi logaritmi e noialtri si possa vivere ancora un po’ come comanda la nostra stupida volontà?».

Questo annuncio diviene solenne nelle righe successive:

«All’uomo, sempre e dovunque, chiunque egli sia stato, è piaciuto agire come voleva lui, e per null’affatto come invece gli comandavano la ragione e il suo proprio vantaggio. […] Il proprio volere, libero, personale e autonomo, il proprio capriccio personale, foss’anche il più strambo, la propria fantasia, eccitata e talvolta fin’anche alla follia: ecco appunto qual è quella cosetta sempre tralasciata, e più vantaggiosa di qualsiasi altro vantaggio, che non si confà ad alcuna classificazione e a causa della quale tutti i sistemi e le teorie se ne vanno perennemente al diavolo.»

Sì, perché l’uomo si sente urtato quando vede la propria libertà collassare in una serie di leggi, e come si può evitare di contaminare gli assunti riduzionisti con qualcosa di irrazionale, se il prezzo della rinuncia è l’ammissione della propria eterodeterminazione? All’uomo non importa di essere retto, sano e razionale: vuole solo potersi determinare, essere capriccioso e fare quello che vuole. In questo consiste principalmente la vita. Nell’ottavo capitolo la crociata prosegue e viene subito presa in analisi proprio l’ipotesi che il libero arbitrio sia riducibile a formule calcolanti i bisogni di un essere umano anatomizzato, in modo tale da includerlo definitivamente nell’enorme meccanismo causale della natura e renderlo un “tasto” tra gli altri:

«Se davvero si riuscisse a scoprire un bel giorno la formula di tutti nostri desideri e i nostri capricci, ovvero ciò da cui essi dipendono, e le leggi precise per le quali essi si producono […], se si riuscisse cioè a scoprire la loro vera formula matematica, magari allora l’uomo potrebbe anche smettere di volere, e anzi, magari smetterebbe di certo. Sì, perché che gusto c’è a volere in base a una tabellina? Non soltanto: ma smetterebbe subito di essere un uomo, per diventare invece uno spinotto d’organetto o qualcosa del genere; giacché cos’altro sarebbe mai un uomo senza desideri, senza una sua libertà e senza alcuna possibilità di volere, se non appunto uno spinotto sull’albero di un organetto?»

Si tratterebbe di conciliare volontà e raziocinio, e non esisterebbe più la possibilità di desiderare le “cose sbagliate”. E però c’è un problema, segnala subito l’uomo del sottosuolo: il raziocinio è una gran cosa, ma è soltanto il raziocinio, che è una minima parte dell’intera vita umana, la quale si manifesta interamente solo nella volontà. Se anche la vita si manifesta in forme spregevoli, si tratta pur sempre di vita, e non di una radice quadrata: è coscienza e incoscienza, spesso anche menzogna, ma pur sempre vita, che non è riducibile al solo raziocinio.

«Sì perché io, tanto per fare un esempio, è perfettamente naturale che voglia vivere per soddisfare tutta la mia capacità di vivere, e non invece per soddisfare solo la mia capacità raziocinativa, ovvero una ventesima parte, o giù di lì, della mia intera capacità di vivere.»

L’uomo vuole anzitutto il diritto di desiderare anche la più stupida delle cose, altroché il proprio vantaggio e basta, perché egli, non importa quanto vicino alla scienza/ragione possa sentirsi, rimane un essere bipede e ingrato per definizione, col difetto aggiuntivo della scorrettezza e «di conseguenza irragionevolezza». La stessa storia dell’uomo ci mostra come egli, pur coperto di felicità e tranquillità scientifica, combinerà qualcosa anche solo per il gusto di farlo, mettendo tutto a repentaglio, per la sola necessità di non sentirsi una rotella dell’ingranaggio, privato della libertà di volere: se fosse provata l’esistenza di tale meccanismo, l’uomo cercherebbe piuttosto la distruzione e il caos, si convincerebbe di essere indipendente e se tutto ciò fosse ancora razionalizzabile, egli infine preferirebbe impazzire per dissipare tale ragione dall’interno. L’uomo vuole essere un uomo, e non un tasto di pianoforte, ed è proprio questo che la scienza vuole fare, checché se ne dica, perché:

«Quale libera volontà mi resterà più quando si arriverà a quella tabellina e all’aritmetica, quando ci sarà in voga solamente il due per due quattro? Due per due farà quattro anche senza la mia volontà. E sarebbe dunque questa, la mia volontà?»

Nel nono capitolo, e ultimo di nostro interesse per questo tema, Dostoevskij introduce brevemente il tema della noia. Contro a chi sostiene che la scienza debba correggere il “vecchio comportamento” dell’uomo, irrazionale e fallace, l’uomo del sottosuolo argomenta che se anche può darsi che l’uomo abbia una mente da ingegnere e vuole per questo aprirsi la strada, il più delle volte egli la apre verso non importa quale direzione, ovvero lo fa solo per tenersi impegnato e non cadere nell’ozio e quindi nella noia, padre di tutti i vizi. Con questo palese richiamo al lato esistenziale della filosofia di Pascal, viene spiegato anche perché l’uomo ama distruggere:

«Perché egli ha istintivamente paura di raggiungere lo scopo e di portare a termine l’edificio che sta creando […]. Potrebbe benissimo darsi che quell’edificio egli lo ami solamente da lontano, e per nulla affatto quando lo vede da vicino. Può darsi che egli ami solamente costruirlo, crearlo, ma non viverci. […] E chissà […], forse tutto lo scopo al quale tende l’umanità consiste soltanto e per l’appunto in questa perpetuità del processo del suo raggiungimento, o in altre parole: nella vita stessa, e dunque non nello scopo considerato di per sé…»

… che sarebbe quel due per due quattro (simbolo della razionalità matematico-scientifica) che per l’autore non è una formula di vita, bensì il «principio della morte», in quanto una volta trovati tutti i due per due quattro non resterà più nulla da cercare, e questo ci fa paura.

«Sono d’accordo che il due per due quattro sia una cosa eccellente; ma se bisogna proprio tessere delle lodi, allora anche il due per due cinque è talvolta una cosetta proprio graziosa.»

Così come graziose sono talora la sofferenza e la distruzione, che possono provocare piacere. Queste sono tutte cose che fanno parte di quel capriccio che l’uomo vuole tenersi stretto. Anche perché la sofferenza è la causa della consapevolezza, maggiore disgrazia dell’uomo, alla quale tuttavia non rinuncerebbe mai: è molto meglio del due più due quattro, perché raggiunto quest’ultimo non rimane nulla, ma raggiunta la consapevolezza quantomeno ci si può frustrare un po’, il che rianima dalla noia, ed è meglio di niente.

«Io sto dalla parte di… dalla parte del mio capriccio, perché il mio capriccio mi sia garantito, quando ce ne sarà bisogno.»

Ricapitolando, dunque, potremmo dire che per Dostoevskij (o per l’uomo del sottosuolo) l’estremismo scientifico (si badi: solo l’estremismo, perché comunque «sono d’accordo che il due per due quattro sia una cosa eccellente») è da condannare perché:

  • Tende a ridurre l’uomo a un ingranaggio della natura deterministica (definita tale dalla scienza stessa, forse confondendo assunti metodologici con assunti ontologici), privandolo di libertà, responsabilità e in ultima analisi umanità (da qui in poi parleremo di riduzione).
  • Prescrive il razionale come buono e positivo, definendolo “vantaggio” ma dimenticando che l’uomo è solo in parte razionalità e che nutre una parte importante di sé anche col male e l’irrazionale (da qui in poi parleremo di prescrizione).
  • Mira alla certezza e alla fissità, al tenere in mano la verità, dimenticando di essere, come ogni altra attività umana, solo un’attività con cui l’uomo cerca di fuggire alla noia che lo caratterizza strutturalmente (da qui in poi parleremo di fissazione).

Dostoevskij difende il diritto umano ad essere capriccioso e ribellarsi a tutto ciò, ad affermare se stesso e la propria volontà nel mondo, senza lasciarsi fagocitare l’essenza dalle sue stesse creazioni. Due per due cinque è il simbolo dell’irrazionalità, del libero arbitrio, dell’autodeterminazione libera nei confronti del sommo nemico che è la noia. Una cosa che racchiude quanto di più prezioso l’uomo possiede.

Facciamo un balzo in avanti di circa mezzo secolo per incontrare un altro caso simile nel capolavoro di Evgenij Zamjatin: Noi, romanzo distopico capostipite di classici come Il mondo nuovo di Huxley e 1984 di Orwell. In questo romanzo è possibile ritrovare i tre punti sottolineati nel discorso di Dostoevskij, che indicheremo di volta in volta facendo riferimento alle denominazioni che abbiamo appena attribuito loro. Riduzione e prescrizione sono già visibili in negativo fin dalla fine dell’Appunto 3, dove dalle parole del protagonista D-503 emerge ancora una volta la contrapposizione tra scienza e libertà. Una scienza, in questo caso, giunta ai termini estremi ipotizzati da Dostoevskij, resa Scienza Unica di Stato che regola i comportamenti umani nel più razionale dei modi possibili (sia nelle sue esplicazioni individuali e private, come la vita sessuale e la routine giornaliera, sia in quelle sovrastrutturali, come le leggi estetiche e morali), assumendo di poter così garantire la felicità a tutti («li costringeremo ad essere felici» compare in una delle prime pagine del libro, con toni da Platone inferocito), o meglio, a noi, ossia alla società come individuo unico più che come insieme di individui.

In un altro passo si accosta lo Stato a Dio, che promise agli uomini la felicità senza libertà, ma Adamo, stolto, per inganno di Satana scelse la libertà senza felicità, fase per fortuna superata nell’ottica di D-503 e i suoi contemporanei. Lo stesso Benefattore (il capo dello Stato) instaura un parallelismo tra se stesso e il Dio cristiano: entrambi sono dei carnefici adorati come emblema d’amore, in quanto offrono il Paradiso, che altro non è se non un posto in cui sono sconosciuti desideri, compassione, amore, fantasia… in altre parole, offrono la felicità, che è l’unica cosa che gli uomini davvero desidererebbero. Insomma, anche qui il progresso della scienza e della ragione è contrapposto alla libertà e all’autodeterminazione dell’uomo. Eppure è impossibile negare che, nel passato di Dostoevskij (che è poi il nostro tempo), quando la libertà era ancora qualcosa di pulsante, le cose andassero diversamente:

«Di quale logica di stato volete mai che si parlasse allora, quando gli uomini vivevano in stato di libertà, ossia come le bestie feroci, le scimmie, le mandrie? Cosa si poteva pretendere da loro, se perfino ai nostri giorni – dal fondo, da qualche recesso villoso – giunge di tanto in tanto all’orecchio una selvaggia eco scimmiesca?»

Per fortuna però sono casi isolati, che facilmente nella società ipotizzata da Zamjatin vengono eliminati per il bene della collettività. Individui-minaccia di questo tipo sono i Mefi, ribelli di cui il protagonista incontrerà senza saperlo una componente, I-330. Inutile dire che se ne innamorerà, cedendo alle sue attività irrazionali che lo porteranno lentamente a comprendere che c’è qualcosa d’altro oltre a “quel ventesimo o giù di lì” dostoevskiano che il raziocinio. La “capricciosa” I-330 rappresenta proprio l’irrazionale che c’è nell’uomo, con il suo comportamento spensierato e libero; la passione messa in tutto ciò che fa; l’apprezzamento per quella vecchia musica fatta non di applicazioni sonore di teoremi matematici, ma di intemperie emotive e dissonanze; l’amore per il passato fatto di libertà ed errore («Questo è l’appartamento che più mi piace: è il più insensato»); la sensibilità per i vestiti “in vecchio stile” («essere eccentrici significa infrangere il principio di uguaglianza… e ciò che nella sciocca lingua degli antichi era ‘essere banali’ nella nostra significa adempiere soltanto al proprio dovere»); la capacità di rispondere alla domanda «Perché ti piace quella vecchietta?» con «Non saprei, forse per la sua bocca. O forse così e basta, senza un perché».

Capitolo (o Appunto) dopo capitolo, il protagonista ribalta il proprio modo di concepire il suo mondo grazie al contatto con la donna, gli viene la malattia che comporta in lui la “presenza di un’anima” (risveglio di individualità e irrazionalità), per via di quella stessa donna che all’inizio gli appare come una √-1, una di quelle che da bambino a scuola lo facevano stare male, in quanto «non era possibile intelligerla, neutralizzarla, perché era fuori dalla ratio», e di cui lentamente impara ad apprezzare il fascino irrazionale. √-1 è qualcosa che siamo disposti a celare illecitamente pur di non vedere, e la scienza è la bugia più grande di tutte: minuscoli esseri insignificanti cercano di leggere il mondo alla luce delle proprie categorie adatte alle proprie capacità intelligibili e ai propri fini, per sfuggire all’angoscia di fronte a quello che Pascal chiamava “l’infinitamente grande”. Un atteggiamento che il già citato Nietzsche ben descrive nelle prime righe di Su verità e menzogna in senso extramorale:

«In un qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della “storia universale”: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente»

Se l’aspetto che abbiamo chiamato fissità emerge già per certi versi in quanto appena detto, più evidente comparsa la fa nell’Appunto 28, dove I-330 spiega che esistono due forze nel mondo: Entropia (statica), che conduce a una tranquillità beata ed equilibrata, ed Energia (dinamica), che porta alla distruzione dell’equilibrio e a un movimento infinito. Gli avi cristiani si prostravano davanti all’Entropia, mentre i ribelli Mefi (non a caso, da Mefistofele, anticristiani in questo senso) si appellano all’Energia. Infatti la rivoluzione ha sempre senso, non c’è mai uno stato di felicità definitivo e dato, mai un obiettivo ultimo in cui, realizzata la somma razionalità, tutto possa andare nel migliore dei modi. Bisogna sempre chiedersi: «e dopo?». Perché se l’universo intero è uniforme, chiaro e matematizzato, siamo nell’Entropia, non nel divenire dell’Energia, ma solo le differenze contengono la vita: se c’è uniformità bisogna far esplodere la diversità, quella che l’uniformarsi alla perfezione dettata dalla ragione non può evitare di sopprimere, e con essa l’individualità, l’autodeterminazione propria della libertà, il capriccio dell’uomo e l’uomo stesso. Come la bellezza ha un rapporto tutt’altro che scontato con la perfezione formale, la felicità ha un rapporto complesso con la ragione. Tutte cose che prevengono la quiete in cui l’uomo crede di trovare una felicità definitiva e data, ma che in realtà così facendo garantiscono sempre il carattere dinamico della vita e delle attività volte a darle un senso, più che giungere ad un fine concreto (ricerca scientifica inclusa). Energia, appunto: Energia vitale!

Lentamente, quindi, D-503 cede all’irrazionalità: «Tutti devono impazzire» auspica alla fine dell’Appunto 27. E certamente ce lo diciamo anche noi, ogni qualvolta ci sentiamo stretti nei nostri costrutti razionali o, specularmente, ci sentiamo completi all’interno della più irrazionale delle occupazioni. Eppure a molti di noi capita, infine, senza rendercene conto, di non riuscire a reggere a lungo il disagio dell’irrazionalità, la realtà dell’esistenza, il dionisiaco (i cui caratteri sono del resto piuttosto ben impersonati in Energia) che sta alla base della vita… e, da bravi eredi socratici, facciamo come D-503 dopo essersi sottoposto, deluso dalla vita, all’intervento per asportargli la fantasia e quindi assicurargli la “felicità al 100%”: cediamo al sogno della techne e cerchiamo di dominare il mondo mediante la scienza, prolungando di qualche istante in più il tracotante istante menzognero di cui parlava Nietzsche, che altro non è che una rassicurante quanto cieca fiducia nelle nostre capacità, senza fare troppo caso ai limiti che esse tramandano in negativo… e , da piccoli esseri ciechi, gridiamo fieri:

«Io spero che vinceremo! Anzi, ne sono certo: vinceremo! Perché la ragione deve vincere!»