«M’illumino d’immenso»

Il silenzio in letteratura può essere presente come tematica in un romanzo (es. I quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello) o come presenza, come entità di per sé sussistente ed eloquente in un’opera (magari teatrale, come Aspettando Godot di Beckett), ma in questo caso ci occuperemo del silenzio come assenza di parole all’interno della forma d’arte che fa uso delle parole stesse per trasmettere il proprio messaggio, nonché come spazio vuoto sulla pagina bianca (perché, come il Futurismo insegna, in fondo la letteratura rimane legata alla vista ed è in grado di comunicare anche per forme e disposizioni, si trova su un foglio e questo non dev’essere per forza un dettaglio marginale ai fini comunicativi). Per farlo, dobbiamo tornare all’inizio del XX secolo.

La Prima Guerra Mondiale rappresenta probabilmente il primo grande shock storico per l’umanità del ventesimo secolo, già scossa dalle filosofie irrazionaliste e dal crollo del Positivismo. Anche se in un primo momento l’arruolamento è su base volontaria, quando la situazione si complica anche chi di propria volontà non avrebbe mai voluto combattere in una guerra si trova costretto a recarsi sul fronte e dare il proprio contributo alla truculenta prosecuzione della guerra di logoramento in trincea. Non è comunque quest’ultimo il caso di Giuseppe Ungaretti (1888-1970), che, allora alla soglia dei suoi trent’anni d’età, decide di andare a combattere come volontario. È un periodo in cui il Futurismo e gli echi dannunziani esaltano la violenza e incoraggiano l’interventismo. Recarsi a combattere è fonte di speranza e di onore per la patria: anche per chi non è guerrafondaio, combattere sul fronte può significare far terminare prima la guerra, e con essa forse “tutte le guerre”. È soprattutto questa speranza a muovere il giovane Ungaretti, che sul fronte scopre, attraverso dolori e atrocità che evidentemente non si aspettava, una dimensione esistenziale inedita, che lo mette nella condizione di comprendere più a fondo se stesso, la condizione umana e il rapporto di quest’ultima con la natura. La guerra è un’esperienza che porta l’essere umano ai limiti della propria condizione («È il mio cuore / il paese più straziato»), mettendolo di fronte a contrasti come quelli tra vita e morte, tra eterno e nulla, tra bisogni spirituali e materiali, tra dolore presente e idealizzazione del passato, tra assoluto e contingente. L’uomo si rivela in tutta la propria contraddittorietà e i suoi problemi essenziali mostrano la loro più intangibile fuggevolezza. Le poche parole che esulano dal silenzio in cui il disagio della guerra rinchiude i soldati, risuonano nel vuoto come le parole distillate poste col contagocce sul foglio bianco del poeta Ungaretti. Sono parole che quest’ultimo imprime spesso sul suo supporto cartaceo, mentre si trova sul fronte, e che troveranno uno sbocco nella raccolta di poesie L’allegria (1918, già pubblicata nel 1916 col titolo Il porto sepolto, poi ampliata).

Ungaretti mette a punto una nuova forma di poesia, che si rivelerà assai influente nel panorama poetico del resto del secolo. I suoi versi non sono più tali, sono versicoli composti non da parole, ma da «parole scavate». Le frasi dei versicoli sono brevi, incisive, permeate di lirismo puro. Non hanno la finalità di descrivere, ma di evocare attraverso potenti analogie una sensazione che il poeta cerca di sigillare all’interno della chiusura – appunto, parlando di ciò che verrà poi definito ‘Ermetismo’ – ermetica della sua poesia, volutamente misteriosa, oscura, che cerca di afferrare l’essenza pura dell’eterea presenza che sta a monte dell’emotività. Le parole sono rarefatte sullo sfondo bianco e la loro comparsa, spesso minuta, su di esso, equivale alla rappresentazione dello squarcio di quel silenzio esistenziale con cui le parole, spesso folgoranti e illuminanti con forza sfuggente alla razionalità, instaurano un rapporto dialettico di arricchimento reciproco. La poetica della parola scavata di Ungaretti gioca non solo attraverso le presenze, la costruzione di una poesia sussistente e tangibile, chiaramente comprensibile e visibile, ma anche attraverso le assenze: gli spazi vuoti, le parole estromesse, i rapporti logici taciuti. Ungaretti non punta alla quantità, ma alla qualità delle parole, cercando di permeare ogni elemento del più forte significato essenziale.

M’illumino / d’immenso, riporta una delle poesie più conosciute di Ungaretti. Questo e null’altro. Eppure, con quattro parole, Ungaretti riesce a folgorare l’interiorità del lettore con forza notevole. Che cosa evochi non è chiaramente definito – del resto, mettendo in gioco la soggettività di ogni lettore, Ungaretti vuole coinvolgere nell’opera poetica un’entità estranea a se stesso, mettendo quindi in conto che le sensazioni richiamate possano divergere dalla sua idea originaria – eppure è di per sé evidente che tali parole suscitino inequivocabilmente qualcosa di potente in colui che le legge. Tacendo su molte cose, Ungaretti lascia il via libera ad un’infinità di emozioni possibili (e probabilmente inesprimibili altrimenti) che possono manifestarsi a partire dal silenzio che permea ogni parola. Del resto, il poeta stesso è consapevole di non poter fare più che questo, ammettendo che:

«I giorni e le notti
suonano
in questi miei nervi
di arpa
vivo di questa gioia
malata di universo
e soffro
di non saperla
accendere
nelle mie
parole»

Ungaretti vuole qui esprimere la sua frustrazione per non riuscire ad imprimere nella sua poesia, nonostante tutto, l’essenza di ciò che prova. Ma già dalla prima poesia della prima raccolta di poesie, Ungaretti afferma che «Tra un fiore colto e l’altro donato / l’inesprimibile nulla». Quel nulla è forse il silenzio, quello che si nasconde nel gesto che trasforma un fiore colto in un fiore donato. Spesso, l’obiettivo della comunicazione sfugge in modo clamoroso alla presa del linguaggio, dissolvendosi nell’esatto momento in cui la presa della parola cerca di afferrarlo. E l’approccio giusto non è quello di appesantire l’assedio delle parole nei confronti dell’inesprimibile:

«Ho popolato di nomi il silenzio.
Ho fatto a pezzi cuore e mente
Per cadere in servitù di parole?
Regno sopra fantasmi»

Pur attingendo a tematiche proprie del Crepuscolarismo più che del Futurismo, è da quest’ultima avanguardia che Ungaretti attinge per concretizzare l’aspetto formale della sua poesia che va tenuto a mente come punto centrale di questa trattazione. I futuristi giungono alle soglie dell’arte visiva anche in ambito poetico, giacché non si limitano ad eliminare la punteggiatura e a fare a pezzi la sintassi ed il discorso logico, ma rompono anche la struttura della pagina, conferendo un senso (o quantomeno una qualità estetica) anche alla dislocazione delle parole sul foglio, che possono assumere così infinite posizioni e forme. Ungaretti coglie il principio di base di tale idea e capisce che esiste una differenza sostanziale tra lo scrivere «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie» nel mezzo di una pagina bianca oppure all’interno di un folto discorso. Non si tratta quindi soltanto di comprendere l’eloquenza del silenzio e concentrare il contenuto in poche, forti parole, ma anche di considerare lo spazio bianco – silenzioso anch’esso – come portatore di messaggi significativi, come elemento di arricchimento della poesia stessa. Lo spazio bianco sulla carta è il correlativo letterario del silenzio verbale uditivo, entrambe condizioni che permettono alle poche parole di risuonare con pienezza nell’ambiente circostante.

Esplicitare attraverso la similitudine di cui sopra la condizione del soldato, ponendo tale definizione al centro di una pagina vuota, conferisce alle parole un peso diverso, un profumo di solitudine e di caducità che in altre condizioni formali non verrebbe espresso con la stessa potenza. Per giungere al significato più autentico della parola, bisogna liberarla il più possibile dall’accostamento con altre parole prive di particolare valore simbolico, riducendo all’osso il discorso e avvicinando le parole soltanto al silenzio purificatore, al non espresso. Solo così si può arrivare alla vera essenza, al significato puro della poesia. Idealmente, il tutto si riduce alla singola parola ricolma di significato, tant’è vero che tutto venne affidato alla parola, al singolo vocabolo isolato dagli altri da pause di silenzio e da spazi bianchi, secondo un sistema ancora più accentuato dalla mancanza di punteggiatura. Quindi certamente il vocabolo ungarettiano, così sospeso nel vuoto, assume un tono altamente suggestivo, quasi magico, anche se fondamentalmente alogico e irrazionale. Un gioco di pause e silenzi profondamente affascinante, che permette soltanto in quanto tale ad alcuni concetti provenienti dal profondo dell’animo umano di affiorare e di entrare in risonanza emotiva con chiunque sappia accogliere la poesia di Ungaretti dentro di sé. Si tratta di una comunione di inconsci, di quel “porto sepolto” che tutti noi possediamo, e da cui il poeta cerca di portare alla luce qualche reperto emotivo da racchiudere nel segreto della sua poesia, sigillato dalla chiusura ermetica dell’estetica letteraria. Il porto sepolto in cui «Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde / Di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto».

«Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso»