La musica è sentimento. È l’animo dell’autore trascritto in accordi, parole e melodie. E se in quell’animo noi fruitori ci rispecchiamo, se le nostre corde più profonde risuonano all’unisono con esso e con il messaggio che le note portano, come una corda di chitarra che risuona alla perfetta frequenza di un diapason, allora possiamo davvero esperire il pieno potenziale di un brano musicale. Possiamo appieno comprendere cosa l’autore voleva comunicare al suo pubblico, o semplicemente quali moti agitavano il suo animo nel momento in cui le prime note del suo componimento hanno risuonato nell’aria, o nel momento in cui la punta della penna ha cominciato a lasciare il suo solco sul foglio.

Questo è per me un artista, in ogni ambito: colui che con la sua creazione sa emozionare, che sa impregnare di sé il prodotto del suo genio creativo, trovando qualcuno che sa ascoltarlo, condividendo quel pezzetto lucente od oscuro di sé, cantato, tradotto in musica, oggetto o parole.

Ed è questo, a mio modesto avviso, il discrimine tra chi è artista e chi non lo è.

Inserendomi dunque nel solco tracciato dall’articolo Ku Klux Klassik o “Della discriminazione della musica leggera” del Caporedattore di sezione Mattia Merlini vorrei provare a tenere alta la bandiera di coloro che non applicano alcuna discriminazione tra artisti, tra musica colta e musica non tale, in favore di emozione e sentimento. Per fare ciò azzarderò un paragone che farà forse storcere il naso a qualcuno, accostando uno tra i più classici autori latini, Catullo, ad un artista a noi contemporaneo, Ed Sheeran. Andiamo allora a vedere in cosa questi due autori possono essere avvicinati, e quali testi prenderemo in considerazione, anche se forse alcuni di voi, leggendo il titolo, si saranno già fatti un’idea.

“When I was six years old…”

Partiamo proprio da Ed Sheeran: classe 1991, il cantautore di origine inglese nasce nello West Yorkshire ma cresce a Framlingham, Suffolk. Nel suo ultimo album, di recente uscita dopo un periodo di silenzio artistico, egli dedica una canzone proprio al territorio di Suffolk, e proprio a questo brano noi faremo riferimento: Castle on the Hill. Cerchiamo allora di evidenziare alcune delle tematiche importanti che traspaiono dal testo dell’autore, per poi cercare delle somiglianze nella lirica catulliana.

Innanzitutto partiamo dalle dichiarazioni di Sheeran stesso, che in una recente intervistai ha definito proprio Castle on the Hill un’ode alla terra della sua giovinezza: nessuno l’aveva mai fatto. L’idea dunque nasce da un movimento dell’animo carico di lirismo e, appunto, sentimento. Agli occhi di chi vi scrive possiamo individuare, in sunto, tre macrotemi che percorrono il brano:

  • La tematica del ricordo: il testo è pregno di rievocazioni che arrivano direttamente dalla memoria e dal passato dell’autore, un’ode, questa, che già dalla sua apertura canta dell’interiorità di Sheeran. Dall’episodio della fuga dal fratello, a quello del suo passato da quindicenne, tra sigarette e alcolici: tutto nel brano è avvolto da una nostalgia agrodolce del passato, di quei campi ruggenti e di quelle stradine di campagna che parlano di vita e di emozione.

  • In questa storia narrata attraverso i ricordi si legano a doppio filo con essi gli affetti: gli amici di un tempo vengono ricordati insieme a tutti gli episodi e le emozioni vissute insieme. Portami indietro a quando… diventa frase topica del brano: la volontà di tornare al passato per rivivere le emozioni di un tempo, positive, rischiose o avventate accompagna le descrizioni cariche di emotività, che nel ritornello culminano in quel tramonto sul castello in cima alla collina, vissuto insieme agli affetti più cari, ricordati poi per come sono ora, nelle difficoltà del mondo adulto. Rimangono comunque le persone che mi hanno cresciuto nel cuore di Sheeran a cui manca il modo in cui mi facevate sentire, proprio nel momento dell’iconico tramonto condiviso.

  • Proprio questa nostalgia si lega al terzo grande tema del brano, quello del ritorno (o, per dirla in un modo più classico, del nostos). Il dolore del tanto agognato e impossibile salto verso il passato, dal sapore dolceamaro (che, ironia terminologica, non è altro se non, di nuovo, la nost-algia) si lega al ritorno fisico nella sua terra, cantato ad ogni ritornello, che ci ricorda quanto l’autore sia per strada, che guida per quelle strade di campagna così familiari. Non sto più nella pelle di tornare a casa, ci confessa l’autore nel bridge.

Salve, bella Sirmione…”

Possiamo trovare queste stesse tematiche, secondo chi vi scrive, in uno dei componimenti più famosi di Catullo: il componimento dedicato a Sirmione (Carme 31ii). L’autore latino trascorre un periodo di pace nella sua villa, appunto a Sirmione, a conclusione del suo viaggio in Bitinia. Seppur distanti millenni nelle modalità espressive, questi temi vengono condivisi (ed espressi magistralmente, a nostro avviso) qui come nel componimento dell’autore british. Tornare nella terra dei propri ricordi è per Catullo motivo di immensa felicità: con quanta gioia e piacere ti rivedo, dice il latino alla sua Sirmione, perla delle penisole e delle isole che appartengono al doppio Nettuno.

Il sollevarsi, finalmente, di tutte le preoccupazioni si fonde con la dimensione di caloroso affetto (espresso qui come in altri carmi) che la personificata Sirmione regala a Catullo: c’è gioia più grande, si chiede l’autore, che sciogliere il nodo delle preoccupazioni, quando la mente depone il suo peso, e stanchi di viaggi all’estero siamo arrivati al focolare e riposiamo sul letto agognato? Il calore del focolare dunque si contrappone all’estero carico di preoccupazione, in un agognato e realizzato ritorno: questo è l’unico degno compenso di tante fatiche. Persino la bella Sirmione viene invitata ad allietarsi per il ritorno del suo padrone, così come vengono invitate alla gioia e al riso di questa riunione le onde del lago lidio (l’odierno lago di Garda).

Arte lirica

La poetica di Catullo dunque si rivela concorde a quella espressa quasi programmaticamente da Callimaco, caposcuola dell’estetica alessandrina, in Áitia, vv. 1-6; 17-20, poetica raccolta negli intenti e nelle realizzazioni in periodo romano dai poetae novi o neóteroi. Nel componimento indicato la poesia callimachea viene caratterizzata da brevità, deliberato rifiuto della grandiosità e della magniloquenza, che certo non lasciano indietro tutta la dimensione dell’espressività che canta l’interiorità dell’autore. Come Sheeran, Catullo, “erede” dell’alessandrino, prende spunto in moltissimi componimenti da situazioni del vissuto, rielaborate poi secondo schemi e modalità della cosiddetta poesia “d’occasione” (epigrammatica e giambica).

Lirismo, canto del sé, emozione e sentimento dunque: oggi come tra il IIo e il Io secolo a.C.. L’invito con cui abbiamo aperto allora, ad essere attenti alla capacità espressiva del sentimento piuttosto che al mero tecnicismo fine a se stesso, e che speriamo di aver ampiamente argomentato con questo paragone artistico, può essere ripreso proprio nelle parole degli Áitia callimachei, che, con grande veemenza, invitano i detrattori del poeta:

Via di qui, funesta progenie della maldicenza! Un’altra volta con l’arte, e non con la pertica per misurare, giudicate la bravura!


ii La traduzione utilizzata è quella di G. Paduano