La storia si ripete. Sempre, nel bene e nel male. E così alcuni fatti sottoposti all’occhio (critico, ed è per questa ragione che un articolo di questo tipo compare nella rubrica Occhio critico pur non trattando primariamente di cinema) di un videogiocatore ormai praticamente in pensione – ma comunque attento osservatore dell’evoluzione del medium quantomeno dall’esterno, e al contempo amante del cinema – stimolano dei parallelismi assai eloquenti e intriganti, al punto tale da spingerlo a scriverne pubblicamente, azzardando “paragoni” che faranno forse storcere il naso a molti ma che a parere di chi scrive parlano da sé.

La nascita del videogioco viene fatta risalire a ormai più di mezzo secolo fa (secondo alcune sarebbe però da retrodatare addirittura ai primi anni Cinquanta), anche se certamente la diffusione del medium su larga scala, fino a poter entrare nelle case di chiunque, è un fenomeno assai più recente. L’evoluzione del linguaggio videoludico ha portato il videogioco a subire, come sarà facile immaginare, un grande cambiamento dagli albori ad oggi, non solo dal punto di vista tecnico, ma soprattutto (non parleremmo di linguaggio altrimenti) comunicativo: dall’assoluta semplicità e povertà di contenuti dei primi esempi, siamo giunti in tempi recenti a prodotti capaci di raccontare storie e persino trasmettere concetti in un modo che spesso non ha niente da invidiare a quello che il cinema è in grado di fare da molto più tempo. Naturalmente, se già il medium della serie TV si differenzia dal cinema nel modo di raccontarsi per proprie ragioni strutturali, pur rimanendo molto vicino al cinema per gli elementi formali messi in gioco, per il videogioco il discorso è ancora più complesso, giacché a differenza di cinema e serie TV si tratta di un prodotto interattivo, che non lascia il fruitore in uno stato di passività, ma anzi: ha il preciso scopo di coinvolgerlo, e ha infiniti modi (espressivamente non neutrali) per farlo. In effetti, il videogioco non ha in comune col cinema molto più di quanto il cinema abbia con le arti visive nate prima di lui. Ma allora perché inserire un simile articolo in una rubrica di cinema se giammai potremmo sognarci di inserire un articolo di cinema nella sezione di arti visive? Perché l’obiettivo dell’articolo è quello di mostrare alcuni punti di contatto tra l’evoluzione del videogioco e quella del cinema, ancor più che dal punto di vista del linguaggio (che come abbiamo visto è essenzialmente differente e irriducibile a un vero e proprio nucleo comune, se non quello dell’immagine in movimento e, come vedremo, alcuni altri fattori), dal punto di vista della concezione da parte di pubblico e critica.

Oggi, come ieri, del resto, il videogioco è ben lungi dall’essere considerato comunemente accostabile a un’opera d’arte. Si tratta di un modo di svagarsi e intrattenersi, di un prodotto commerciale tutt’al più capace di stimolare il pensiero, quando non è addirittura assurdamente incolpato di istigare alla violenza (cosa, specialmente in Italia, all’ordine del giorno). Eppure sarebbe proprio di un atteggiamento veramente poco attento ignorare il fatto che il videogioco, come si diceva, è un medium che si è sviluppato moltissimo, soprattutto negli ultimi 25 anni, e che oggi si sta spingendo ben oltre i limiti che inizialmente ci si sarebbe potuti immaginare. È vero, molti titoli rimangono essenzialmente di natura “leggera”, volti effettivamente più ad intrattenere che ad esprimere pensieri, emozioni, concetti, storie… ma non è forse vero che lo stesso vale per gran parte del cinema cosiddetto “blockbuster”, ma non per questo il cinema è accusato di non essere una forma d’arte? Tuttavia non è stato sempre così: basta leggere il romanzo I quaderni di Serafino Gubbio operatore per toccare con mano come persino personaggi di un certo calibro culturale e intellettuale come Luigi Pirandello, un paio di decenni dopo la nascita del cinema, non si facessero alcuno scrupolo a scagliarsi contro il nuovo medium, degradandolo a una forma di riproduzione senz’anima, di intrattenimento senza cervello, assai inferiore all’arte teatrale, che ogni volta si rinnova e chiama in causa l’abilità performativa degli attori. Il cinema non è stato considerato da sempre una forma d’arte, eppure oggi nessuno metterebbe in dubbio lo statuto della cosiddetta (non a caso) “settima arte”. E se nascesse una “ottava arte“, saremmo in grado di riconoscerla subito o faremmo, di nuovo, gli stessi errori del passato? La storia si ripete.

Certo, diremo noi, come biasimare Pirandello quando egli si trovava innanzi a “filmetti” di poco conto come lo erano i primi esperimenti cinematografici? Tutto vero, eppure a metà degli anni Dieci, mentre Pirandello scriveva, erano maturi i tempi perché il cinema non solo reinterpretasse a modo proprio le avanguardie storiche dell’arte visiva che dominavano in quegli stessi anni, ma anche per produrre, da lì a poco, i capolavori dell’Espressionismo tedesco, ad esempio. Non proprio dei giochetti con la cinepresa, insomma! Accusato un uomo come Pirandello di una certa miopia nei confronti delle potenzialità del nuovo medium, risulta di assoluta facilità accusare con simili capi d’imputazione la maggior parte delle persone che esprimono la propria “seria” opinione nei confronti del videogioco. Specialmente considerato che l’epoca dei “giochetti” di poco conto, o almeno della loro supremazia assoluta (in un certo modo quello spirito, come si diceva, continua a vivere tutt’oggi, così come continua a vivere in altre forme quello dei sopracitati “filmetti”) è terminata non da pochi anni, come nel caso Pirandello vs Cinema, ma da una ventina d’anni abbondante!

Ma con quale argomentazione possiamo ritenere che un videogioco possa assurgere al titolo di “opera d’arte”? Si tratta di capire che cosa può essere considerato “arte” e che cosa no, e questo non è certo un problema di poco conto, dal momento che si tratta di uno dei massimi interrogativi del discorso estetico di tutti i tempi. Qualcosa è però possibile dirlo anche solo partendo da fatti evidenti: oggi il mondo è pieno di manifestazioni artistiche estremamente eterogenee, tanto che la celebre affermazione di Dino Formaggio «Arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte» risulta essere più vera ed attuale che mai. Eppure non sembra possibile fermarsi a questo: prendere un sasso e chiamarlo “arte” non è mai un atto neutrale, bensì porta con sé almeno un minimo di concettualità che, nel suo apparente silenzio espressivo (un sasso in sé ha ben poco da esprimere) finisce per comunicare qualcosa. Il tentativo di Duchamp di prendere la latrina e renderla arte (cfr. Il Silenzio nell’Arte Pt. 1 nell’apposita rubrica) è perfettamente riuscito perché il suo tentativo di creare un non-senso diventa portatore di senso nuovo, diventa espressivo. Chiamare “arte” qualcosa ha sempre un intento, sia esso quello di provocare, di far riflettere, di cercare di non dire nulla (anche qui, però, per qualche ulteriore ragione). Di conseguenza, se l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte, e tutto ciò che gli uomini chiamano arte porta con sé una propria espressività ereditata dall’atto di “battesimo” in questione, la proprietà fondamentale dell’arte, oggi più evidente che mai, è quello di muovere lo spirito umano (termine che vuole indicare al contempo quella che potremmo chiamare “mente” o “intelletto”, insomma il lato più razionale di noi, e quello che potremmo chiamare invece ancora più metaforicamente “cuore”, o comunque il lato più emotivo e irrazionale di noi). L’arte è tale perché stimola esprimendo (e detto questo risulterà abbastanza facilmente deducibile anche come mai generalmente non si considera propriamente “arte” una partita di calcio o simili).

Quindi, se non bastasse il fatto che dietro ad ogni videogioco, ora più che mai, si nasconde il lavoro artistico (nel senso più canonico e ormai accettato del termine) di artisti, sceneggiatori, attori, designer, doppiatori, compositori, registi e chi più ne ha più ne metta, la cosa decisiva per poter tentare di definire, almeno in potenza, “arte” la forma comunicativa videoludica è il fatto che essa è in grado di stimolare lo spirito: può intrigare la mente umana richiedendo strategie intellettuali complesse, può far piangere fino al collasso un essere umano colpito nel suo lato emotivo da una particolare scena, può sfruttare la peculiarità del mezzo che è, ossia l’interattività, per instaurare interessanti e paradossali intrecci tra realtà e finzione, può esprimere il mondo fantastico nella mente di un creatore così come un romanzo può fare (e sfruttando anche qui le proprie potenzialità di medium interattivo per rendere il giocatore partecipe della storia, capace di mutarla e influenzarla, di approfondirla di più o di meno, eccetera) e al contempo esprimere la visione di un regista o il viaggio interiore di un compositore integrando altre forme d’arte (senza per questo essere riducibile ad esse) così come il cinema a suo tempo aveva fatto in modo esemplare. Se i primi videogiochi sono stati poveri quanto i primi film a livello di contenuti e di forma, non ci vorrà molto (o forse il tempo è già giunto da un po’) affinché i videogiochi raggiungano la stessa maturità, in relazione alle modalità e potenzialità del proprio medium, ovviamente, che i film raggiunsero ad esempio negli anni Cinquanta in relazione alle modalità e potenzialità del cinema. E chissà che in un futuro non troppo lontano Tohru Iwatani non potrà essere accostato a Méliès, Hironobu Sakaguchi a Hitchcock e Hideo Kojima a Kubrick, oppure, ancora più semplicemente e genuinamente, il videogioco potrà essere considerato un’opera d’arte, rimanendo pur sempre un mezzo d’intrattenimento e di “svago”, ma pienamente maturo e capace di stimolare l’uomo, che dovrà tenere a mente il fatto che il cinema, la letteratura o la musica a loro volta sono qualcosa di così poco diverso dal gioco che rientrano nella categoria di attività umane che, in un tempo che tutti ben ricordiamo, veniva chiamata non a caso otium.