Che cos’è un eroe? Una delle definizioni più comuni, con cui tutti possono concordare, ne parla come di “qualcuno che compie un atto straordinario a beneficio di una comunità”. Si tratta quindi di un uomo che sacrifica sé stesso per salvare la propria famiglia, di colui che salva un popolo dalla schiavitù conducendolo in una terra promessa, del guerriero le cui imprese ricordiamo ancora oggi, nonostante siano passati secoli dalla sua morte. Si può dire che l’eroe non sia un uomo come tutti gli altri e in un certo senso non sia più nemmeno un uomo ma qualcosa di superiore, o almeno così appare agli altri uomini. Ma come si misura un vero eroe? Tra gli elementi fondamentali perché un eroe sia tale va sicuramente inserito il tempo: ogni nostro giudizio è infatti inficiato da una sorta di aura gloriosa proiettata sui grandi uomini del passato e più il loro tempo è lontano, più rimangono di loro solo gli elementi positivi. Vi è un ulteriore elemento da considerare, assolutamente centrale nella questione: se noi oggi abbiamo esempi di eroi passati, questo è dovuto alla letteratura che ce ne ha preservato il ricordo: miti, poemi, storiografie, biografie e opere teatrali non fanno altro che tramandarci le imprese di quegli uomini eroici di cui altrimenti non avremmo memoria. Non sono solo le azioni effettivamente compiute a rendere un eroe tale ma anche e sopratutto il racconto delle sue imprese, che avviene quasi sempre postumo e che è il vero cardine della questione.

Vorrei dunque proporre una analisi della figura dell’eroe così come viene presentata dal mondo greco classico, culla della cultura occidentale, per mostrare come si debba parlare piuttosto di “figure” dell’eroe. Siamo di fronte ad un concetto infatti che assume valore grazie al tempo e al racconto ma che, con il passare del tempo stesso e con racconti e interpretazioni diverse, si modifica. Vi è un processo di sviluppo ben definito attraverso la letteratura greca che porterà, come vedremo, l’eroe del mito, solitamente posto in una condizione semi-divina, ad abbassarsi progressivamente tra gli uomini fino a diventare uno di loro.

La bellezza della semplicità

Nel mondo greco, la prima figura dell’eroe è quella che trova espressione nei primi racconti delle sue imprese, ossia i miti della tradizione orale e i poemi omerici: questa figura è la più sincera e genuina, è il modello fondamentale, il codice sorgente, a cui tutte le altre interpretazioni si ispirano, aggiungendovi o modificandone alcuni tratti. Quello che contraddistingue questi eroi e che li rende degli ottimi punti di partenza per successive elaborazioni, è la semplicità psicologica che ne domina la vita e la società in cui vivono: le caratteristiche che un eroe deve possedere per essere tale si riassumono nel concetto di kalokagathìa, ossia nell’essere belli e buoni. Non bisogna impegnarsi per ottenere questi due tratti e infatti gli eroi dei poemi omerici nascono tali: nel mondo statico di Omero nessuno può diventare eroe. La bellezza fisica e la virtù morale sono due caratteri che appaiono inscindibili negli eroi omerici e mitici e sottolineano così una perfetta continuità tra l’aspetto interiore e l’aspetto esteriore dell’uomo; basti pensare a Tersite, soldato dell’esercito greco a Troia che, non essendo virtuoso dal punto di vista eroico, è anche brutto e deforme. Tersite non è un eroe perché non si comporta come tale: è debole ed è buono solo a giocare a dadi o a fare l’oratore, anche se non sa misurare le parole. Nell’episodio che lo rende famoso Tersite incita i guerrieri greci ad abbandonare l’assedio di Troia e a ritornare a casa, ma abbandonare il campo di battaglia sarebbe da vigliacchi e getterebbe un ombra oscura sull’onore di tutti gli eroi greci che scegliessero di ritirarsi. L’agire coscientemente da vigliacchi e il non preoccuparsi del proprio onore infangato strappano violentemente Tersite dalla società degli “eroi” e lo gettano tra gli uomini comuni, vili e codardi, che si preoccupano della propria vita piuttosto che della propria memoria. Per via della perfetta continuità tra aspetto morale e aspetto fisico che vige nel mondo omerico, chiunque si comporti in questo modo così poco virtuoso non può non essere, oltre che vile, anche «guercio e zoppo, e di contratta gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso di raro pelo». Tersite infatti è colui che rinnega i due valori sui quali tutti gli eroi incentrano la loro intera esistenza, dato che sono le uniche due cose in grado di dare senso alla loro vita, secondo l’ottica eroica: il kléos (κλέος, la fama) e la timé (τιμή, l’onore).

La fama è necessaria a tutti gli eroi per sconfiggere quello che il nemico più grande di tutti e che non possono sconfiggere in duello: tutti gli eroi temono infatti l’oblio dopo la morte e solo diventando materia per il canto poetico, per il racconto, possono diventare immortali. L’onore invece va dimostrato materialmente tramite il possesso del ghéras (γέρας), ossia del bottino, che viene accordato all’eroe in base al valore dimostrato e che dimostra a chiunque il ruolo e la forza dell’eroe. Vorrei soffermarmi su come questi due valori siano realmente pregnanti all’interno della società omerica e come rappresentino le uniche aspirazioni degli eroi omerici: chi perde il ghéras o non si vede assegnato il giusto premio per il suo valore e muta improvvisamente gli amici in nemici. Basta pensare in questo caso ad Achille, che vorrebbe uccidere Agamennone, reo di avergli sottratto Briseide, o Aiace, che quando non ottiene le armi di Achille progetta di sterminare gli altri greci.

Per descrivere questo mondo si è spesso parlato di “società di vergogna”: si tratta di una definizione particolarmente precisa, poiché è proprio la vergogna e il timore di essa che spinge all’azione tutti gli eroi. Sarebbe vergognoso ritirarsi dopo dieci anni di guerra senza aver concluso niente; sarebbe vergognoso non rispettare i patti stabiliti tra gli eroi; sarebbe vergognoso morire anziani lontano dalla guerra senza aver compiuto imprese degne di memoria; sarebbe vergognoso non recarsi in guerra per cercare la gloria se il proprio padre ha fatto lo stesso. Questa situazione, che potrebbe essere recepita come tragica da attenti lettori moderni data la mancanza di scelta libera degli eroi, non è in realtà per niente avvertita come tragica dagli stessi eroi, se non in alcuni momenti molto rari, per non dire unici, di introspezione. Achille ne vive uno abbastanza celebre e breve subito dopo la morte di Patroclo, dopo il quale decide di tornare a far parte della società eroica, pur con una consapevolezza maggiore dimostrata nel dialogo con Priamo dell’ultimo libro. Altra caratteristica fondamentale della vita dell’eroe classico è la brevità: nessun eroe muore anziano, poiché altrimenti le sue imprese gloriose sarebbero offuscate da una vita mediocre. Agli occhi degli eroi è molto meglio morire giovani in battaglia dopo aver sconfitto centinaia di altri eroi ed essersi conquistato con le armi il diritto ad essere ricordato nei poemi. La morte è dunque nemica degli eroi solo se arriva troppo tardi, dopo che le imprese compiute sono state avvolte dal tempo, o se arriva troppo presto, prima di aver ottenuto la gloria; quando la morte arriva al momento giusto allora è l’unica alleata dell’eroe.

Dei, eroi e regole

Osserviamo altri aspetti degli eroi omerici e mitici, in particolare il loro rapporto con gli dei e con le leggi eterne stabilite dalla Giustizia. Innanzitutto è bene notare che tutti gli eroi del mito e dei poemi sono imparentati con gli dei o comunque ne sono “simili”: tra gli epiteti più comuni vi è infatti dìos, (δίος, “luminoso”) che è utilizzato anche per le divinità. La somiglianza con gli dei non è solamente estetica ma comprende anche la forza e le molteplici abilità degli eroi: celebre è il racconto della battaglia del libro V, in cui Diomede, eroe greco, si lancia in duello contro le stesse divinità che vagano trai combattenti sulla piana di Troia. Diomede incontra Enea sul campo e lo assale con tanta furia che la madre del troiano, la dea Afrodite, si getta davanti al figlio per portarlo in salvo; dopo ciò si rivolge al greco e, mostrandosi a lui come dea, lo invita a ritirarsi e a desistere ma Diomede vibra la sua lancia e ferisce Afrodite alla mano, costringendola a ritirarsi. Nella stessa battaglia Diomede ingaggia poi un duello con Ares stesso, tenendogli testa finché non sopraggiunge anche Apollo e il greco figlio di Tideo deve ritirarsi. Diomede, come altri eroi omerici, è tale da poter combattere con gli dei alla pari e abbastanza temerario da ferirli senza temere una punizione.

È bene soffermarsi sul tema della punizione divina per il peccato tipico dell’eroe, quello di superbia (hybris, ὕβρις): nella mentalità greca classica esistono per gli uomini dei limiti alle loro capacità e chi supera questi limiti incappa sempre in una punizione divina; questo dovrebbe bastare ad invitare alla moderazione, ma vale anche per gli eroi omerici e mitici? La risposta è più complessa e articolata di un semplice “sì” o “no”: si dovrebbe dire piuttosto che gli eroi omerici non si preoccupano dell’esistenza di limiti umani e non considerano questo fatto come un elemento importante della loro vita. Essi agiscono senza fermarsi a pensare se le loro azioni rientrino o meno nei limiti imposti; basta semplicemente che le loro azioni siano volte al raggiungimento della fama e dell’onore perché siano valide. Non si può neanche parlare di una accettazione stoica della sofferenza causata dalla punizione: gli eroi mitici che peccano di hybris ricevono una punizione dagli dei ma sembrano non soffrirne. In seguito alla guerra di Troia, Afrodite si vendicherà di Diomede facendo in modo che tutti i parenti rimasti a casa non lo riconoscano al suo ritorno e lo credano morto in guerra; Diomede però non rimane sconvolto da questa situazione e semplicemente abbandona la sua patria per recarsi in Magna Grecia dove fonderà diverse città. La punizione dunque esiste e colpisce anche gli eroi ma questi sembrano non interessarsi ad essa. Da questa prospettiva, l’ottica eroica è completamente diversa dall’ottica umana e vedremo come il processo evolutivo del concetto di eroe porti questa figura ad avvicinarsi sempre di più all’uomo comune.

L’eccezione che cambia tutto

Come si è visto, finora abbiamo parlato degli eroi combattenti per eccellenza, Achille, Aiace e Diomede, e abbiamo visto come questi siano estremamente semplici dal punto di vista psicologico; a pensarci bene, è più per questa loro certezza nell’agire che si differenziano dagli uomini. Esistono però almeno due eroi che si distinguono da tutti gli altri: Edipo ed Odisseo, gli eroi della conoscenza. Questi hanno in più rispetto agli altri il carattere della riflessione sulle proprie azioni: Odisseo valuta le proprie azioni, se ne propone diverse e infine sceglie la migliore; inoltre è curioso ed è spinto dalla sua sete di conoscenza a viaggiare e a vedere le città e conoscere i pensieri di molti uomini. Edipo gli è molto simile: difatti non deve combattere per sconfiggere il suo nemico, ovvero la Sfinge, gli basta riflettere. Ovviamente Edipo ed Odisseo sanno anche combattere ma il saper pensare offre loro diversi modi di agire che in determinate situazioni risultano estremamente più efficaci della forza bruta. Per fare un esempio di questo, possiamo immaginarci Achille nella stessa situazione di Odisseo nell’antro di Polifemo: Odisseo aspetta, inganna il ciclope, perde dei compagni, lo acceca e infine scappa con l’inganno, lasciando Polifemo in vita. Achille invece, una volta resosi conto del mostro che si trovava davanti, molto probabilmente lo avrebbe sfidato e lo avrebbe ucciso senza molti problemi, guadagnandosi infinita gloria data la forza dell’avversario. Sarebbe però poi morto all’interno della grotta: chi infatti avrebbe spostato l’enorme pietra che blocca l’ingresso se solo Polifemo ne era in grado? Odisseo di questo si rende conto e desiste dalla prima idea che ha avuto, ovvero di uccidere il mostro, come un eroe “classico” avrebbe fatto. Il pensare alle proprie azioni e al mondo modifica non soltanto il modo in cui Odisseo agisce ma ridimensiona anche i suoi scopi, rendendoli più “umani”: vuole soltanto tornare a casa, non si interessa più della guerra o delle imprese gloriose. Il poter pensare a quello che gli accade e dare una valutazione a questo rende Odisseo più conscio della punizione divina per aver oltrepassato i limiti e dunque lo fa soffrire più di quanto soffrano gli eroi dell’Iliade.

Non si deve però pensare che per questo Odisseo sia inferiore ad un eroe classico, dato che rimane comunque protagonista di imprese straordinarie da cui esce vincitore con gloria, fama e spesso anche un bottino. Sono certamente situazioni diverse da quelle tradizionali e Odisseo agisce in modi diversi da quelli degli eroi classici ma l’esito è sempre lo stesso. La vera novità, che infrange la magnificenza degli eroi, non si trova nel proporsi più azioni possibili, nel voler conoscere il mondo piuttosto che combattere i propri nemici o nel ridimensionare i propri obbiettivi bensì nel modo di pensare che contraddistingue il secondo personaggio citato, Edipo. Questi è infatti il primo a mettere in pratica, pagandone il fio, il motto delfico fatto proprio anche da Socrate, “conosci te stesso”: il motore della storia di Edipo infatti non è altro che il suo desiderio di conoscere le proprie origini e la propria identità, scoprendo così l’abisso che questa celava. Edipo inaugura un modo di pensare che non è proprio nemmeno di Odisseo, scopre l’introspezione e questo lo avvia inevitabilmente sulla strada della tragedia. L’introspezione, il cercare di conoscere sé stessi, rende l’eroe molto più incerto e pensieroso e per questo motivo è da Edipo, piuttosto che da Odisseo, che si può ricavare il modello psicologico da usare nella tragedia. Come cercherò di mostrare nel prossimo articolo, è infatti nelle progressive interpretazioni dei tre grandi tragediografi che gli eroi diventeranno uomini.