Fosco Maraini (Firenze 15 novembre 1912 – Firenze 8 giugno 2004) è stato un etnologo, orientalista, alpinista, fotografo, scrittore e poeta italiano. E’ il principale esponente della metasemantica – da lui stesso teorizzata e definita così – la quale è un metodo di scrittura che si avvale di parole prive di referente (significato) e che fa leva sul suono onomatopeico e la posizione nelle frasi delle suddette parole per suscitare sensazioni più o meno arbitrarie conferendo un senso alle sue poesie.
La metasemantica fu quindi utilizzata da Maraini per scrivere diverse poesie raccolte nella sua “Gnòsi delle Fànfole”.
A questo punto è doveroso farvi leggere almeno un paio delle sue poesie per farvi capire al meglio di cosa stiamo parlando:

IL LONFO

Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce,
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.
E’ frusco il Lonfo! E’ pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa legica busia, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui, zuto
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

IL GIORNO AD URLAPICCHIO

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,
ma oggi è è un giorno a zimpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzillano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.

La loro particolarità – oltre ad essere piacevoli, belle e geniali – è nella loro espressività; ovvero la loro capacità di veicolare Senso attraverso parole senza significato, senza referente.
Il Referente è l’oggetto stesso alla quale si riferisce la parola – cellula fondamentale per la formazione delle asserzioni e quindi il senso compiuto della frase. Ma allora come facciamo a percepire il senso di frasi e poesie composte da non-parole o meglio da parole inventate senza un preciso significato? Mi verrebbe da suggerire banalmente (anche se banale non è) che il senso della comunicazione è indipendente dal referente. Sembra che non necessitiamo obbligatoriamente di parole specifiche dotate di significato per comunicare delle sensazioni, delle emozioni che poi vengono da noi stessi, inconsciamente, rielaborate e investite di senso. Io credo che a partire dalla lingua madre e dalla conoscenza delle sue regole grammaticali (le quali apprendiamo in tenera età) e dal riconoscimento (in parte per istinto, in parte per coscienza culturale) dell’espressività di alcuni suoni onomatopeici possiamo percepire il senso (o meglio un senso) delle frasi comunicate con senza significato, senza referente . Se così non fosse difficilmente una madre potrebbe capire le comunicazioni del proprio pargolo, il quale sembra aver acquisito la grammatica ma non totalmente le parole – a volte inventandosele di sana pianta o ripetendo male quelle udite -, anche se in quel caso entrano in gioco tanti altri fattori come ad esempio il linguaggio del corpo.

La metasemantica, però, oltre che regalare importanti e interessanti riflessioni di Filosofia del Linguaggio dona anche delle considerazioni di natura Estetica; mi riferisco al ruolo dell’arte e alla sua essenza.
Seguendo il ragionamento fin qui svolto una poesia (e l’arte in genere) non deve necessariamente essere quindi descrittiva – perché appunto non dotata di referente – ma piuttosto propagatrice, costruttrice, di qualcosa di nuovo. Sembra quindi che l’arte sia, o almeno sono spinto a pensare, una sorta di strumento per abbattere le regole convenzionali, comuni, e creare qualcosa di nuovo. Non però qualcosa di parallelo alla nostra realtà, ma un ampliamento della stessa mostrandoci pieghe che prima non potevamo dis-piegare, aprire e osservare. Una sorta di lente o, se vogliamo, di finestra sull’immenso mondo che ancora non riusciamo a cogliere appieno. Un mondo che esiste, sussiste e si amplia grazie all’uomo stesso e che per natura è portato ad auto rivelarselo tormentato dalla domanda del senso del proprio esistere. E quale cosa migliore dell’arte per scoprirlo? Quale mezzo può essere più utile se non un mezzo di per sé privo di significato e dispiegante del senso?

In conclusione, come arricchimento di questo articolo, vi lascio il video della divertente e magistrale interpretazione del maestro Gigi Proietti de “Il Lonfo” di Fosco Maraini.