Lo scorso articolo ci introduceva alla questione evidenziando come un eroe diventi tale non soltanto per le gesta che compie ma anche e grazie al tempo trascorso dalla sua morte e soprattutto grazie alla letteratura che ne ha preservato il ricordo, trasmettendolo fino a noi. Proprio per queste caratteristiche si può tracciare, analizzando diversi episodi narrati dai poemi omerici (nello scorso articolo) e dalle tragedie (argomento di questo articolo), un percorso evolutivo dell’eroe, che culminerà con la sua trasformazione in uomo comune, consegnato al mondo di tutti i giorni. Il processo prende il via dagli eroi omerici, caratterizzati dall’estrema semplicità psicologica e dalla limitatezza degli obiettivi, e continua con la figura di Odisseo, a cui si aggiunge il pensare alle proprie azioni e la molteplicità dei futuri possibili, ma soprattutto con Edipo, che tramite una profonda capacità introspettiva si avvicina alla dimensione della tragedia. Il percorso evolutivo procede allora sulla strada tracciata da Edipo incontrando le diverse interpretazioni dei tre tragediografi classici, Eschilo, Sofocle e Euripide, che progressivamente tolgono all’eroe la certezza delle sue azioni, lo riempiono di dubbi e lo abbassano al rango di uomo comune. È infatti nella dimensione tragica che, secondo la prospettiva greca classica, può mostrarsi la vera natura dell’uomo, pieno di dubbi, incerto, gettato in un mondo in cui cerca disperatamente il proprio posto.

Eschilo e la scoperta dell’eroe tragico

Eschilo è il primo dei tragediografi greci di cui ci siano giunte opere per intero, il suo stile è spesso ricco di espressioni altisonanti e di arcaismi ricercati, in modo da trasporre le vicende raccontate su di un piano lontano nel tempo e nello spazio dallo spettatore. Tra le numerose innovazioni che si fanno risalire al suo genio, vi è la creazione della trilogia: fu infatti il primo a proporre agli agoni poetici ateniesi tre tragedie legate tra di loro dal contenuto. Di lui ci rimangono solo sette tragedie complete: I Persiani, Sette contro Tebe, Le supplici, Prometeo incatenato e la trilogia Orestea. L’interpretazione eschilea della figura dell’eroe riprende l’innovazione dell’introspezione e dei dubbi già di Edipo ma in chiave nettamente più tragica: tutti i personaggi di Eschilo sono tutti rappresentati come superiori agli uomini ma, a differenza degli eroi dei poemi, questi sono pieni di dubbi e incertezze. Tipici della tragedia eschilea sono infatti i lunghi monologhi in cui gli eroi in scena ripercorrono le loro azioni e le circostanze che li hanno portati nelle situazioni presenti e analizzano le possibili scelte da fare. Spesso queste scelte sono però ridotte ad una sola: come avveniva per gli eroi dei poemi, anche questi si trovano di fronte per un motivo o per l’altro una sola scelta possibile. Gli eroi eschilei sono costretti a comportarsi sempre da eroi, perché così vuole la loro storia, e perché altrimenti non sarebbero più eroi. La tragedia si verifica quando gli eroi, con la loro azione, oltrepassano il limite posto dalle leggi eterne: vi sono regole stabilite che nessuno può superare senza punizione, questo valeva anche per gli eroi omerici, che però non se ne curavano. Adesso gli eroi sanno dell’esistenza del limite e temono la punizione che ne consegue ma devono comunque superarlo perché così vuole la storia e perché altrimenti non sarebbero eroi. Gli eroi di Eschilo si potrebbero chiamare eroi del “comunque”: Prometeo sa che Zeus ha proibito agli uomini l’uso del fuoco, ma comunque lo ruba e lo riporta agli uomini; Oreste sa che è sbagliato uccidere la propria madre, che nel farlo supererà un limite posto dalla Giustizia eterna, ma comunque uccide Clitemnestra. È dunque in questa conoscenza del limite, che si può ottenere solamente pensando a sé stessi, alle proprie azioni e alle conseguenze delle proprie azioni, e nel successivo oltrepassarlo comunque che si trova il senso tragico dell’uomo. Eschilo riesce con grande maestria a trasporre questa visione sul mondo degli eroi omerici, senza modificarne le storie o le caratteristiche, ma ponendo in evidenza un aspetto che non si presentava mai nei poemi e nei miti.

Sofocle e il nuovo mondo

Il punto successivo di questo processo evolutivo si trova nel secondo tragediografo, Sofocle, le cui tragedie riescono in maniera straordinaria a mostrare come stia mutando il modo di concepire l’eroe in relazione all’uomo, ponendo sulla scena un vero e proprio “mondo di uomini”. Se le tragedie di Eschilo si ambientavano in un mondo che costringeva gli eroi ad essere tali perché agli uomini servivano eroi con quei valori, il mondo di Sofocle non necessita più di eroi. Per Sofocle un eroe non è eroe solo perché segue i valori dell’eroe o perché compie azioni da eroe: lo è perché continua a seguire quei valori o a compiere quelle azioni anche se nessuno lo apprezza per questo.

L’opera in cui questo appare più chiaro è sicuramente Aiace: alla morte di Achille, gli eroi dell’esercito greco domandano che le sue armi siano consegnate all’eroe più valoroso, che agli occhi di tutti è Aiace Telamonio, secondo per forza solamente al defunto figlio di Peleo; le armi vengono però assegnate ad Odisseo. Aiace impazzisce di rabbia e vorrebbe fare strage dei greci che lo hanno privato del giusto onore che meritava ma Atena lo acceca, facendogli così massacrare buoi e montoni dei Greci. Una volta tornato in sé, comprendendo di aver compiuto un gesto ridicolo, decide di riscattarsi dalla vergogna suicidandosi. Perché le armi di Achille vadano ad Odisseo e cosa succeda di preciso nel momento in cui Aiace torna in sé sono le domande che dobbiamo farci per comprendere meglio la situazione. Il titolo di miglior guerriero degli Achei va, insieme alle armi di Achille, ad Odisseo perché il mondo è cambiato e si apprezza di più l’eroe che sa pensare piuttosto che combattere, che sa convincere le persone piuttosto che ucciderle, che riesce a parlare con tutto il popolo invece che relazionarsi esclusivamente con gli altri eroi. Menelao e Agamennone sanno che, in un mondo in cui i vecchi valori di onore e forza in combattimento non valgono più, è meglio avere al proprio fianco un Odisseo piuttosto che un Aiace e pertanto consegnano al primo le armi. Ricordando quello che avevamo detto nel primo articolo, è il ghéras, il premio, a confermare il valore di un eroe, ma in questo nuovo mondo sono cambiati i criteri con cui si giudica il valore di un eroe. Aiace di questo cambiamento non se ne è accorto e crede ancora che l’onore e la gloria in battaglia determinino il proprio valore che è dunque superiore a quello di Odisseo. Aiace, pensando che tutto sia come prima, come aveva fatto Achille nell’Iliade di fronte ad Agamennone che reclama ingiustamente Briseide, progetta di sterminare i Greci responsabili dell’affronto al suo onore. Atena allora acceca Aiace, facendogli compiere una strage di animali, ma Aiace è già cieco prima dell’intervento di Atena: non si è infatti accorto del divenire del mondo. Quando Aiace si risveglia comincia a vedere chiaramente cos’è diventato il mondo che prima vedeva luminoso e adatto agli eroi: è un mondo di uomini pavidi e deboli, che non vogliono più (e forse temono) un eroe classico e tutto d’un pezzo; il mondo statico e perfetto dove l’eroe sapeva sempre cosa fare o cosa dover fare si è trasformato in un mondo mutevole e in divenire. Aiace non può e non vuole continuare a vivere in questo mondo come ha fatto fino a quel momento ma non vuole nemmeno rinnegare i propri valori, che intimamente ritiene ancora validi. Desiderando di restare un eroe in un mondo che eroi come lui non ne vuole più, Aiace compie l’ultimo atto eroico che gli resta: il suicidio; un suicidio che qui vuole essere un estremo rifiuto del mondo e una contemporanea affermazione di sé e dei propri valori. È una sorta di suicidio stoico, che non è proprio solamente dell’Aiace, ma anche di altre grandi tragedie sofoclee: le Trachinie, dove a suicidarsi è Eracle, seguono lo schema descritto poco sopra; anche l’Antigone può essere facilmente letta in questo modo.

Euripide e l’affermazione dell’uomo

È il terzo (e ultimo) autore di cui ci occuperemo, ovvero Euripide, che compie il passo finale e conclude l’opera di demitizzazione: con Euripide e la sua interpretazione la figura dell’eroe sparisce, lasciando solamente un guscio vuoto con lo stesso nome dell’eroe che lo abitava. Il mito narrato dalla tragedia di Euripide non presenta più personaggi o imprese straordinarie ma si trasforma nella storia di un uomo che abita un mondo di uomini. Prendiamo in esame qualche testo per avere un’idea più chiara di come questo avvenga. Nell’Eracle il protagonista, accecato da Era, impazzisce esattamente come l’Aiace di Sofocle e stermina la propria famiglia ma, al risveglio, anche se ha meditato il suicidio, viene convinto a non cedere e a continuare a vivere. Nell’Elettra quello che dovrebbe essere l’eroe, ovvero Oreste, è un completo inetto: non sa decidersi su cosa fare, non sa architettare alcun piano e diventa l’esecutore materiale della volontà della sorella. Oreste compie inoltre una interessantissima riflessione sulla nobiltà, che è sempre stato un attributo dell’eroe, che gli viene ispirata dal buon contadino marito di Elettra: vi sono figli di uomini nobili che non valgono nulla e non hanno niente del carattere dei padri, – si dice Oreste – mentre uomini poveri e umili che si comportano da nobili. Ancora, nella Medea Giasone, “eroe” del mito, è completamente succube di Medea e nel momento in cui prova a recuperare un briciolo di autonomia viene duramente punito dall’ex-compagna che ne uccide i figli e scappa. Nell’Elena invece la situazione dell’eroe diventa ridicola: Menelao, colui che ha indetto la guerra di Troia, si ritrova dopo un naufragio in Egitto a chiedere la carità. Il questuante re di Sparta, che gira per il paese vestito con un pezzo della vela, giunge ad una ricca casa dove piangendo implora aiuto per sé e per i compagni ma viene scacciato letteralmente a pedate da una vecchia serva. Gli eroi in Euripide non sono più tali ma sono uomini come tutti gli altri, come gli spettatori stessi, che sono però costretti dal loro nome e dal loro mito a vivere “grandi” imprese durante le quali hanno le stesse difficoltà degli uomini normali. Non hanno più abilità straordinarie, non sanno più con certezza cosa fare, non hanno più successo e sono deboli di fronte agli avvenimenti che devono affrontare: non sono più in grado di superarli con successo né di opporvisi orgogliosamente tramite un suicidio stoico. Quando vengono presi dal turbine degli eventi, i personaggi di Euripide non sanno più fare niente e, come uomini distrutti, si lasciano trascinare dalla corrente oppure si ritirano in un angolo a piangere.

Conclusioni

Tiriamo ora le fila del nostro discorso: abbiamo visto l’eroe che da essere perfetto e certo delle proprie azioni ha cominciato a valutare la possibilità di agire in modi diversi; questo, unito all’introspezione, è diventato un problema capace di generare senso tragico senza però togliere agli eroi l’aura luminosa che li circonda: gli eroi di Eschilo continuano ad essere eroi in un mondo di eroi, anche se pieni di dubbi. Da questa interpretazione si giunge a quella di Sofocle, dove ci sono eroi persi nel mondo degli uomini che si rendono conto all’improvviso di non vivere in una società statica che apprezza i loro valori e dunque devono compiere una scelta: morire da eroi oppure abbandonare i propri valori e diventare uomini come tutti gli altri. La seconda opzione è quella che scelgono gli “eroi” di Euripide, che quindi calano la propria maschera e si mostrano per quello che sono, uomini simili in tutto e per tutto agli spettatori seduti a teatro. Questa discesa rende sicuramente gli eroi più deboli ma più vicini agli esseri umani; è un processo che prende degli abitatori dell’Olimpo e li pone tra gli uomini, spogliandoli di tutti i caratteri divini che li distinguevano dalle persone di tutti giorni. Si tratta di un regresso o di un progresso? Probabilmente la risposta è più complicata: sicuramente non ci sono più eroi, protagonisti infallibili e gloriosi a cui ispirarsi, ma scompare anche quella netta divisione in due che era propria della società antica. Il confine tra l’aristocrazia eroica e tutti gli umili si attenua fino quasi a scomparire nelle tragedie dell’Atene democratica: in fondo siamo tutti uguali e tutti abbiamo gli stessi problemi, sembra dirci Euripide. Non è dunque un processo da leggersi esclusivamente in un senso pessimistico, poiché contiene una importante rivalutazione dell’intera umanità a scapito delle peculiarità individuali di un ristretto nucleo di persone. D’altronde, a cosa servono eroi così perfetti e lontani quando, come dice Sofocle, «l’uomo è la cosa più straordinaria sulla terra»?