Per quest’ultima parte della trattazione del silenzio nell’arte visiva, questa volta come negazione della forma, ci spostiamo in Italia, anzi, più precisamente per prima cosa in Argentina: Lucio Fontana (1899-1968) nasce, infatti, nel 1899 a Rosario de Santa Fé, da genitori italiani emigrati in Sudamerica, come molti altri in quel tempo. Ottenuta in Italia la padronanza tecnica della scultura (della quale cercherà poi di liberarsi), Fontana torna in Argentina e inizia a lavorare come ceramista e ad insegnare in accademia, riuscendo nel suo intento di suscitare un movimento di arte innovativa, soprattutto quando fonda la Scuola d’Arte privata di Altamira, dove con alcuni studenti elabora il Manifesto blanco (1947), scritto fondamentale per il nascente Spazialismo. Nel 1947, Fontana torna in Italia, desideroso di iniziare un nuovo capitolo della sua carriera, quello in cui fonderà il Movimento Spaziale, iniziando subito a diffondere le idee contenute nel Manifesto blanco, che in Argentina era stato ostacolato da un cambio di clima culturale dovuto all’avvento del regime di Juan Domingo Peron (1895-1974). Inizia così il cammino dello Spazialismo.
Inquadriamo brevemente, prima di passare alla trattazione del “nuovo” Fontana, il peculiare contesto storico e sociale proprio del periodo in cui lo Spazialismo vede la luce, nonché il più vasto panorama artistico a cui viene normalmente accomunato: l’Arte Informale. La Seconda Guerra Mondiale è appena terminata e l’eco dei suoi orrori risuona ancora forte nell’animo umano, e ancora una volta la fiducia viene meno per molte cose, compresa la razionalità. Pertanto, in arte, ogni tipo di razionalità è bandita: siamo naturalmente lontani dal figurativo, ma anche l’astratto va superato. Il nuovo modo per esprimere l’indicibile dolore lasciato dalla guerra (anche se non si tratta sempre e solo di questo) e presente nell’inconscio – ed è in questo senso forte l’influenza del Surrealismo – è l’informe. Insieme alla forma viene negata la progettualità, quindi l’artista non si mette a progettare un’opera d’arte, semplicemente la fa, e in modo che la ragione filtri il meno possibile il frutto diretto del suo inconscio. Spesso si parla quindi di improvvisazione, se non addirittura di aleatorietà dell’arte, in un’ottica molto simile a quella di John Cage. Non è un caso che negli stessi anni in cui Cage compone il suo 4’33”, in America Jackson Pollock (1912-1956) ricorra alla tecnica del dripping (far gocciolare casualmente il colore sulla tela) come mezzo espressivo.
Nell’Informale, assumono dunque nuova importanza il gesto, il segno e la materia. Il gesto – ed è proprio questo a contare nell’Informale, più dell’idea, come poteva essere nel Dadaismo – racchiude tutta l’energia usata per creare l’opera, quell’aura espressiva emanata dall’inconscio dell’artista, sia essa violenta, appassionata, impetuosa o elegante, che viene incanalata in un’azione. Conseguenza diretta del gesto è il segno, ossia ciò che materialmente viene lasciato sulla tela. Esso rappresenta gli automatismi psichici coinvolti nella fase creativa ed è una vera rivelazione di un’essenza profonda. La materia, infine, è l’insieme di oggetti necessari a creare l’opera d’arte, siano essi colori, elementi oggettuali, supporti. Ciò che cambia in merito alla materia nell’Arte Informale, rispetto all’arte del passato, è il fatto che essa non è più solamente un medium con cui dare vita a forme espressive, ma è essa stessa detentrice di un elemento espressivo. Ad esempio, scegliere un supporto liscio o uno ruvido sul quale dipingere non è una scelta espressivamente neutrale. Si pensi in questo caso ad artisti come Alberto Burri (1915-1995). Egli, nelle sue composizioni, che rientrano nell’ambito della pittura materica, quella corrente dell’Informale più attenta all’aspetto materico della rivoluzione artistica di quegli anni, utilizza materiali non solo di per sé degradabili, ma anche resi miseri, sbrindellati e ulteriormente fragili dallo stesso artista, sottolineando i temi della deteriorabilità e del consumo, nonché contribuendo all’idea di “arte fatta da sé”, quindi sia per questo che per altri motivi (come la monocromia) avente una componente espressiva silenziosa, con la serie dei Cretti: spesse superfici monocrome d’impasto a base di zinco e colle viniliche, che presenta forti scanalature generate casualmente, lasciando asciugare l’opera al sole. Sembra quasi di parlare di una sorta di abiura dell’artista, che lascia tutto in mano alla natura e che si limita a stendere la materia prima – rigorosamente monocroma per limitare ulteriormente la propria influenza – e attendere. Non si tratta nemmeno più di una diretta espressione dell’inconscio, ma della natura delle cose, del naturale divenire della materia, la quale, nelle scanalature perfettamente armoniche tra di loro che forma, sembra volerci ricordare di possedere un equilibrio spontaneo che l’uomo non possiede, ma anche che nemmeno essa può sfuggire ad un processo di disintegrazione e frantumazione.
Ma torniamo a Fontana e al suo nuovo Spazialismo: già nel Manifesto blanco, egli esprime la necessità di superare la stagnante arte per com’era stata concepita fino a quel momento, inserendovi la dimensione spaziotemporale. Fontana allude, cioè, ad un altro “spazio”, non terrestre e fisico, né lunare, ma alla dimensione aponderale dell’uomo del futuro, alla dimensione dell’esistenza pura, che solo lo spazio della creazione può anticipare (cit. Campiglio). I futuristi non possedevano il mezzo tecnico necessario per rappresentare il dinamismo nell’arte visiva, che storicamente è stato rievocato perlopiù dalla musica, ma è compito dello Spazialismo trovare tale nuovo mezzo: col Primo manifesto dello Spazialismo (1947), Fontana, corroborato dal supporto di un gruppetto di artisti ed intellettuali che si riconoscono nella sua idea, arriverà a parlare dello svincolamento dell’arte dalla materia, andando così ad eliminare quell’aspetto dell’opera d’arte visiva che le impedisce di essere immortale a causa della degradazione materiale.
E non ci interessa che un gesto, compiuto, viva un attimo o un millennio, perché siamo veramente convinti che, compiutolo, esso è eterno.
(L. Fontana, Primo manifesto dello Spazialismo)
All’inizio degli anni Cinquanta, Fontana si interessa ad approfondire le idee dello Spazialismo in ambito “pittorico”, iniziando così a produrre i Concetti spaziali forati, i cosiddetti Buchi (1949). Si tratta di una serie di tele bucate con un punteruolo o con strumenti scultorei in modo che i fori vadano a creare costellazioni dalla forma più o meno individuabile, senza che essa possieda però necessariamente proprietà figurative o geometriche. Tale atto rientra nella volontà di Fontana di intendere nell’arte in modo unitario la pittura e la scultura e si configura come gesto demiurgico, non più da scultore ma nemmeno da pittore, che sintetizza i due aspetti aprendo la superficie all’incognita del vuoto. Dopo aver inaugurato una prima mostra spaziale nel ’49, con la pubblicazione del terzo manifesto, chiamato Proposta di un Regolamento del Movimento Spaziale (1950), le tendenze della corrente di Fontana vengono esplicitate in maniera quanto mai chiara, grazie ad una serie di punti che sintetizzano quanto detto in precedenza. Tra i punti più significativi ai fini di questa trattazione potremmo citare l’ottavo e il nono:
«8. L’Artista Spaziale non impone più allo spettatore un tema figurativo, ma lo pone nella condizione di crearselo da sé, attraverso la sua fantasia e le emozioni che riceve. 9. Nell’umanità è in formazione una nuova coscienza, tanto che non occorre più rappresentare un uomo, una casa, o la natura, ma creare con la propria fantasia le sensazioni spaziali».
Anche il Cubismo prevedeva una creazione della realtà, ma era Picasso stesso ad assumersi la responsabilità di crearla per gli altri. Lo Spazialismo, invece, lascia al fruitore stesso il compito di interpretare l’apparente silenzio comunicativo che, ancora una volta, come il silenzio di 4’33”, è in realtà pura potenza creativa e possibilità contemplativa.
Fontana passa attraverso le fasi dei Barocchi, dei Gessi, delle Pietre (in cui minerali rifrangenti vengono posti sulla tela per rendere mutevole l’illuminazione a seconda della prospettiva) e di altri tipi di particolari Concetti spaziali, per poi approdare durante gli anni Sessanta – per la verità già nel 1958 – nella fase più importante della sua carriera: quella dedicata ai Tagli, che inizia con le Carte (tagli su carta), per poi proseguire nella più prolifica serie delle Attese. Leggenda vuole che l’artista, durante i preparativi per un’esposizione, deluso e irritato dalla piacevolezza delle proprie opere recenti dal punto di vista decorativo, ne abbia colpita una con una lama. Tale azione gli avrebbe rivelato immediatamente la potenzialità di quel gesto non più distruttivo, ma creativo. I primissimi lavori sono svolti, infatti, su tele già dipinte e con tagli posti casualmente, poi la ricerca di una maggiore purezza formale porta Fontana a disporre i tagli sulle tele in modo più regolare e su una superficie spesso monocromatica (scelta che estirpa dunque anche un altro elemento base dell’espressione visuale, oltre alla forma: il colore, o almeno la varietà di esso). Si tratta generalmente di un singolo taglio verticale lungo tutta la tela, deformazione della quale dà anche modo ad effetti chiaroscurali di avere luogo. Inoltre, se i primi Tagli lasciano intravedere la parete retrostante, in seguito l’artista decide di porre una copertura di garza allentata – in modo che all’occhio risulti come una superficie scura – dietro alle lacerazioni, rendendole più misteriose ma anche accentuandone la violenza e il significato concettuale, più tendente all’assoluto che nei Buchi, ancora eccessivamente permeati da una fisicità troppo impura e sporca. I Tagli sono creazioni di assoluta eleganza e sobrietà, ma al contempo sono anche l’espressione più minimalista dell’arte: un semplice taglio che squarcia la storia dell’arte e lascia intravedere al di là della tela tutto e, per qualcuno, niente.
[Fontana] vagheggia un luogo primario, uno spazio assoluto, infinito, sempre più lontano dall’accidentalità della materia. L’ “Attesa” è un luogo atemporale, o il nulla, come egli amava sostenere, ma anche una implicazione avveniristica, dovuta all’attesa di un futuro immaginato. È l’idea pura che si avvera nell’atto, nel gesto del taglio, e al tempo stesso diviene magicamente forma, senza quasi passare per la materia.
(P. Campiglio, Fontana)
Spiegherà lo stesso autore in un’intervista del 1963:
«Cerco di rappresentare il vuoto. L’umanità, accettando l’idea di infinito, ha già accettato l’idea del nulla».
Con il suo taglio, Fontana riesce a superare l’illusionismo dell’arte e integrare lo spazio reale, un vuoto reale, nell’opera, tenendo in questo modo fede a quanto scritto nel Manifesto Blanco, in cui tra le altre cose l’artista italo-argentino si poneva nell’ottica di liberarsi completamente dell’eredità rinascimentale, intesa come la rappresentazione illusionistica dello spazio attraverso la prospettiva.
Con le seguenti serie di Concetti spaziali, tutte accomunate dalla presenza di tagli e buchi in contesti, forme e materiali tuttavia differenti, il campo semantico riconducibile al violento gesto di Fontana pare allargarsi sempre di più, suscitando le più svariate interpretazioni: c’è chi associa i buchi – soprattutto per il gesto necessario a crearli nelle Nature, servendosi di un bastone penetrante la materia – e, specialmente, i tagli, ad immagini di genitali femminili, che Fontana stesso avrebbe sottolineato in alcune opere, utilizzando colori contestuali ad essi. Si potrebbe trattare anche di ferite aperte, con i buchi che potrebbero richiamare alle ferite da arma da fuoco che Fontana stesso aveva subito durante la Prima Guerra Mondiale e i tagli che invece già erano comparsi nei progetti di alcune statue di Fontana, sempre al fine di rappresentare ferite, in questo caso da arma da taglio. Ancora, qualche studioso riconduce tali gesti ad una metafora visuale dell’inconscio freudiano, cercando di circoscrivere con tagli e buchi quell’indicibile celato nel centro ermetico, impenetrabile del subconscio. Si legge del resto nello stesso Manifesto Blanco: «Tutte le concezioni artistiche son dovute all’inconscio, magnifico ricettacolo dove alloggiano tutte le immagini che l’intelligenza percepisce». Addirittura, esistono storici che utilizzano strumentazioni teoriche di derivazione psicoanalitica per concepire tagli e buchi come una regressione all’informe che, attraverso una sublimazione della materia, cerca di mascherare la natura sadica da cui deriverebbero le opere di Fontana. O ancora, più semplicemente, i gesti aggressivi di Fontana non potrebbero essere un’allegoria della violenza propria delle due Guerre Mondiali vissute dalla società e dall’artista stesso in un passato non molto lontano?
In realtà, ed è proprio questo il punto, la natura silenziosa di tali opere ci impedirà di conoscere mai una risposta definitiva, e proprio in questo modo rinnoverà eternamente il fascino delle stesse. Afferma Fontana in merito alle proprie opere più celebri:
«[Le Attese] sono soprattutto un’espressione filosofica, un atto di fede nell’infinito, un’affermazione di spiritualità. Quando io mi siedo davanti a uno dei miei tagli, a contemplarlo, provo all’improvviso una grande distensione dello spirito, mi sento un uomo liberato dalla schiavitù della materia, un uomo che appartiene alla vastità del presente e del futuro».
È una contemplazione metafisica resa possibile dalla stessa assenza di qualcosa di immediatamente comprensibile alla mente umana, a un significato dato, evidente o calato dall’alto, una proiezione verso l’infinito che soltanto il silenzio di queste opere può gridare a gran voce.
«Mi ripeteva: ‘Conta l’idea, basta un taglio!’»
– G. Ballo su Lucio Fontana
Ormai ho finito la maturità già da un pezzo, ma ci tenevo lo stesso a leggere questo articolo è completare la triade perché, come ormai ho ripetuto già varie volte, ho trovato gli altri illuminanti. E anche questo non ha deluso per niente le aspettative. Grazie per aver condiviso con noi il risultato delle tue ricerche.
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