L’autore a cui cercheremo di avvicinarci in questo articolo è nientemeno che il celebre Edgar Allan Poe (1809, Boston – 1849, Baltimora). Famoso per essere, con ogni probabilità, uno degli scrittori americani più influenti del Diciannovesimo secolo, Poe può essere considerato un artista dalle capacità espressive multiformi, in grado di abbracciare generi e stili differenti, facendolo sempre con grande maestria. Sicuramente, parlando dell’autore, risaltano subito alla memoria nomi di sue celebri creazioni artistiche nell’ambito del macabro e del genere horror, che Poe ha saputo abilmente fare suo inserendo nei propri scritti una dimensione di grande profondità psicologica (pensiamo ad opere come Il cuore rivelatore o Il pozzo e il pendolo). Non solo maestro dell’orrifico però: il nostro si distingue positivamente anche in altri ambiti letterari, tra cui ricordiamo la detective story (I delitti della Rue Morgue viene infatti considerato da molti critici come un racconto precursore del genere, soprattutto nella figura di August Dupin, il razionale pensatore antenato dello Holmes di Doyle) e la produzione poeticai. Proprio da quest’ultimo ambito prendono le mosse le nostre riflessioni, in particolare appoggiandosi ad uno dei componimenti poetici più conosciuti di Poe: Il corvo. Pubblicato per la prima volta nel 1845 tale lungo componimento è stato successivamente analizzato e spiegato nella sua genesi dallo stesso Poe, nel saggio del 1846 intitolato Filosofia della Composizione, nel quale l’autore esterna la metodologia creativa utilizzata per dare i natali a tale poesia. Tale metodo, descritto come prettamente logico, è la guida che l’artista afferma di aver seguito durante l’atto creativo: nulla è stato lasciato al caso, dal significante di ogni termine allo stile compositivo, che avrebbe dovuto accontentare, ad un tempo, il gusto popolare e quello della critica. In questo articolo, tuttavia, non ci concentreremo sull’aspetto genetico de Il corvo, quanto più sulle suggestioni, e sulle possibili interpretazioni, di tale testo poetico (lasciando al lettore il piacere di confrontarsi con le parole dello stesso Poe, contenute nel saggio menzionato poco sopra). Per una migliore comprensione di quanto verrà detto è consigliata una (ri)lettura del componimento in esame (che è possibile trovare a fondo articolo in originale e nella traduzione di Ernesto Ragazzoniii). Nonostante sia impossibile, a nostro parere, sostituire la bellezza della lettura poetica con un mero riassunto (da qui il consiglio appena elargito) ci sembra doveroso partire da una breve sintesi della vicenda, in modo tale da avere un appiglio a cui reggersi nell’articolare le successive riflessioni.

Once upon a midnight dreary…

È l’immagine di una fredda e temporalesca notte dicembrina ad accogliere il lettore: il protagonista, assorto e assonnato, sfoglia le pagine di antichi libri contenenti un sapere ormai dimenticato (Over many a quaint and curious volume of forgotten lore/sovra un raro, strano codice obliato). La calda e sopita atmosfera viene però immediatamente interrotta da un leggero bussare alla porta. Mentre si dirige all’uscio per accogliere quello che crede essere un pellegrino il nostro ci rivela quali pensieri affollano la sua mente: è il desiderio di porre fine alla tristezza e al dolore che lo spinge a questa lettura notturna, tristezza e dolore causati dalla perdita dell’amata Lenore. Alle scuse dello studioso per la sua scarsa prontezza ad accogliere il presunto ospite però non fa seguito alcuna risposta: l’uscio ormai spalancato lascia entrare nella stanza solamente la tenebra, e nulla più (Here I opened wide the door; Darkness there, and nothing more/Aprii la porta: un gran buio, e nulla più!). Il dubbio e la paura cominciano ad assediare la mente del protagonista che, spaesato, rimane a contemplare l’oscurità. Decisosi finalmente a tornare allo studio sospeso poco prima, l’uomo si dirige ancora verso i libri. Tale itinerario viene però nuovamente interrotto dal misterioso picchiettio. Con la credenza, ormai vacillante, di avere a che fare con un ospite ritardatario lo studioso si accinge a controllare la finestra: è proprio allora che il corvo fa la sua prima apparizione, svolazzando nello studio per poi posarsi sul pallido busto di Minerva, accanto all’uscio. Interrogato dall’umano protagonista circa il suo nome, il pennuto fornisce una chiara quanto inaspettata risposta: mai più (in originale nevermore) è il nominativo che la gracchiante voce del volatile fa risuonare nell’aria. La convinzione che tale stranezza possa essere inscritta in fortuite quanto normali coincidenze (`Doubtless,’ said I, `what it utters is its only stock and store […]/«Certo, — dissi, — queste sillabe sono tutto il suo sapere! […]) lascia pian piano posto all’idea che tale inusuale pennuto sia, in qualche modo, una forma di emissario di un mondo sito al di là di quello dei viventi. La curiosità che ha spinto lo studioso a sedersi di fronte al busto di Minerva dove il corvo è appollaiato (But the raven still beguiling all my sad soul into smiling, Straight I wheeled a cushioned seat in front of bird and bust and door/Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo: scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo) lascia inesorabilmente spazio alla disperazione per la perdita di Lenore, rievocata dai familiari oggetti nella stanza che ricordano allo studioso una presenza ormai possibile solo nella memoria. Il filo dei pensieri viene di nuovo interrotto, questa volta però è il gracchiare del pennuto, che perentorio ricorda: mai più! La disarmonica cantilena, che scandisce ormai il componimento, non fa altro se non contribuire ad accrescere il doloroso senso di ineluttabilità legato alla perdita del protagonista: ormai sull’orlo di una crisi di nervi il nostro si rivolge, gridando, al corvo, in cerca di una irrazionale risposta alla propria sofferenza.

`Prophet!’ said I, `thing of evil! – prophet still, if bird or devil! –
Whether tempter sent, or whether tempest tossed thee here ashore,
Desolate yet all undaunted, on this desert land enchanted –
On this home by horror haunted – tell me truly, I implore –
Is there – is there balm in Gilead? – tell me – tell me, I implore!’
Quoth the raven, `Nevermore.’

`Prophet!’ said I, `thing of evil! – prophet still, if bird or devil!
By that Heaven that bends above us – by that God we both adore –
Tell this soul with sorrow laden if, within the distant Aidenn,
It shall clasp a sainted maiden whom the angels name Lenore –
Clasp a rare and radiant maiden, whom the angels name Lenore?’
Quoth the raven, `Nevermore.’

«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
o l’Averno t’abbia inviato — o una raffica di bora
t’abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quaggiù,
in quest’antro di sventure, di’ al meschino che t’implora,
se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!»
Mormorò l’augel: «Mai più!».

«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora
di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden, lassù,
potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!
a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!»
Mormorò l’augel: «Mai più!».

Con l’animo ormai dilaniato dall’impossibilità di un desiderato ritorno, reso ancor più amaro dall’impietoso sussurrare del corvo, al protagonista non resta che implorare pietà all’indirizzo del volatile (Leave my loneliness unbroken! – quit the bust above my door! Take thy beak from out my heart, and take thy form from off my door!/lascia puro il mio dolore, lascia il busto e la mia porta! strappa il becco dal mio cuore! t’alza alfin da quella porta!) il quale, statuario e sordo all’appello, rimane a ricoprire con la propria ombra lo spirito in frantumi del protagonista:

And the raven, never flitting, still is sitting, still is sitting
On the pallid bust of Pallas just above my chamber door;
And his eyes have all the seeming of a demon’s that is dreaming,
And the lamp-light o’er him streaming throws his shadow on the floor;
And my soul from out that shadow that lies floating on the floor
Shall be lifted – nevermore!

E la bestia ognor proterva — tetra ognora, è sempre assorta
sulla pallida Minerva — proprio sopra alla mia porta!
Il suo sguardo sembra il guardo — d’un dimon che sogni, e giù
sui tappeti il suo riflesso tesse un circolo maliardo,
e il mio spirto, stretto all’ombra di quel circolo maliardo
non potrà surger mai più!

Nevermore!

“The Raven” has often been construed as a wholly supernatural poem, which, because of folklore that links ravens to the devil, offers one convincing approach to the poem. Equally convincing are the conditions that give credence to a non-supernatural interpretation, in which the speaker’s delusions prompt him subjectively to incline toward supernatural underpinnings for his interaction with the raven.iii

Con queste parole Benjamin Fisher analizza il componimento di cui abbiamo tratteggiato la vicenda: seguendo quanto propone il critico cercheremo di ritrovare le interpretazioni suggerite, quella prettamente soprannaturale e quella invece maggiormente soggettiva.

A far propendere per la prima potrebbero essere tutti quegli elementi tipici della tradizione letteraria del gotico che presenziano in abbondanza nella poesia: dalla scura notte temporalesca alla presenza di un animale con caratteristiche demoniache (si vedano tutti i riferimenti alla dimensione ultraterrena con termini appartenenti allo stilema dell’oscurità infernale), tutto sembra indicare il materializzarsi di un razionalmente incomprensibile nella vita e nell’abitazione dello studioso. Persino quel sapere dimenticato su cui il protagonista concentra inizialmente la propria attenzione potrebbe essere considerato come la fonte di un qualche antico rituale volto ad evocare spiriti infernali, nel disperato tentativo da parte del nostro di riabbracciare la perduta Lenore.

Senza negare la presenza di tali elementi, tuttavia, l’interpretazione che ai nostri occhi appare più interessante è quella relativa alla soggettività del protagonista: come già suggerisce Fisher, l’opera potrebbe servirsi di questi classici riferimenti per fare cenno alla necessità dello studioso di credere (forse persino in maniera inconscia) in un’incarnazione soprannaturale in grado di lenire il proprio dolore, un qualcosa di irrazionale a cui aggrapparsi con tutto se stesso per non naufragare completamente nell’ineluttabilità della perdita. Le considerazioni e gli assalti verbali dell’uomo, dapprima semplicemente incuriosito o timoroso, ci accompagnano lungo il componimento e lungo l’iter psicologico di un essere sostanzialmente dilaniato dalla impossibile presenza della propria amata: a poco a poco la psiche del protagonista si sfalda, scandita dall’impietoso proferire del corvo, che altro non è se non un’incarnazione fortuita di ciò che l’uomo porta già dentro di sé. Il corvo è un espediente, allo stesso tempo causa prossima dell’esternazione del dolore, e ultimo insensato slancio di speranza, prontamente spenta dalla consapevolezza che Lenore non tornerà mai più, né in questa vita, né in un aldilà solamente immaginato. Il corvo è quel pensiero oscuro che bussa gentilmente all’uscio del nostro animo (la stanza del protagonista) al quale diamo seguito nel momento dell’oscurità (le tenebre che in qualche modo invadono gli spazi della poesia possono esserne un chiaro segno, come lo è l’uomo riluttante ad aprire la porta a ciò che in realtà egli stesso porta dentro di sé). Non c’è nulla di sovrannaturale, dunque, in questa visione del mondo, se non ciò che il disperato desiderio dell’uomo proietta al proprio esterno: il volatile è solamente un animale che, infreddolito, cerca riparo dalla tempesta su di un alto scaffale, la cui cantilena, seppur inusuale, non è poi così irrealistica. Come non richiamare allora, in un tale snodo concettuale, il pensiero del filosofo Friedrich Nietzsche? Cos’è la credenza che lo studioso esterna se non il disperato tentativo di rifuggire al tragico della vita nelle rassicuranti braccia dell’illusione e dell’idolo? Forse, rubando le parole a Poe, il tedesco risponderebbe: Solo questo, e nulla più! La domanda allora potrebbe diventare la seguente: come si può riuscire ad accettare la sfida di dire di sì alla vita abbraciandola nel pieno della sua caotica irrazionalità senza cadere in qualche rassicurante favola, essendo comunque in grado di essere gai danzatori tra le avversità della tempesta? La provocazione filosofica posta dall’esuberante pensiero nietzschiano rimane quantomai attuale nelle vite di ognuno di noi, nonostante a separarci da lui ci siano oltre 150 anni. Tentare di indirizzare il quesito, ahimè, rimane complicato almeno quanto il pensiero che lo genera: lo stesso protagonista soccombe sotto il peso dell’ombra del corvo, l’animo in frantumi ormai schiacciato dal peso dell’irrazionalità, le tante domande, a cui la logica e l’illusorio desiderio proiettati sul mondo non riescono a dare risposta, restano sospese nell’aria, in balia dello sguardo impietoso del nero volatile. Da parte mia rimane la volontà di rilanciare a voi lettori il difficile problema, sperando che la risposta non sia perduta per sempre come la bella Lenore.

 


 

Once upon a midnight dreary, while I pondered weak and weary,
Over many a quaint and curious volume of forgotten lore,
While I nodded, nearly napping, suddenly there came a tapping,
As of some one gently rapping, rapping at my chamber door.
`’Tis some visitor,’ I muttered, `tapping at my chamber door –
Only this, and nothing more.’

Ah, distinctly I remember it was in the bleak December,
And each separate dying ember wrought its ghost upon the floor.
Eagerly I wished the morrow; – vainly I had sought to borrow
From my books surcease of sorrow – sorrow for the lost Lenore –
For the rare and radiant maiden whom the angels name Lenore –
Nameless here for evermore.

And the silken sad uncertain rustling of each purple curtain
Thrilled me – filled me with fantastic terrors never felt before;
So that now, to still the beating of my heart, I stood repeating
`’Tis some visitor entreating entrance at my chamber door –
Some late visitor entreating entrance at my chamber door; –
This it is, and nothing more,’

Presently my soul grew stronger; hesitating then no longer,
`Sir,’ said I, `or Madam, truly your forgiveness I implore;
But the fact is I was napping, and so gently you came rapping,
And so faintly you came tapping, tapping at my chamber door,
That I scarce was sure I heard you’ – here I opened wide the door; –
Darkness there, and nothing more.

Deep into that darkness peering, long I stood there wondering, fearing,
Doubting, dreaming dreams no mortal ever dared to dream before;
But the silence was unbroken, and the darkness gave no token,
And the only word there spoken was the whispered word, `Lenore!’
This I whispered, and an echo murmured back the word, `Lenore!’
Merely this and nothing more.

Back into the chamber turning, all my soul within me burning,
Soon again I heard a tapping somewhat louder than before.
`Surely,’ said I, `surely that is something at my window lattice;
Let me see then, what thereat is, and this mystery explore –
Let my heart be still a moment and this mystery explore; –
‘Tis the wind and nothing more!’

Open here I flung the shutter, when, with many a flirt and flutter,
In there stepped a stately raven of the saintly days of yore.
Not the least obeisance made he; not a minute stopped or stayed he;
But, with mien of lord or lady, perched above my chamber door –
Perched upon a bust of Pallas just above my chamber door –
Perched, and sat, and nothing more.

Then this ebony bird beguiling my sad fancy into smiling,
By the grave and stern decorum of the countenance it wore,
`Though thy crest be shorn and shaven, thou,’ I said, `art sure no craven.
Ghastly grim and ancient raven wandering from the nightly shore –
Tell me what thy lordly name is on the Night’s Plutonian shore!’
Quoth the raven, `Nevermore.’

Much I marvelled this ungainly fowl to hear discourse so plainly,
Though its answer little meaning – little relevancy bore;
For we cannot help agreeing that no living human being
Ever yet was blessed with seeing bird above his chamber door –
Bird or beast above the sculptured bust above his chamber door,
With such name as `Nevermore.’

But the raven, sitting lonely on the placid bust, spoke only,
That one word, as if his soul in that one word he did outpour.
Nothing further then he uttered – not a feather then he fluttered –
Till I scarcely more than muttered `Other friends have flown before –
On the morrow he will leave me, as my hopes have flown before.’
Then the bird said, `Nevermore.’

Startled at the stillness broken by reply so aptly spoken,
`Doubtless,’ said I, `what it utters is its only stock and store,
Caught from some unhappy master whom unmerciful disaster
Followed fast and followed faster till his songs one burden bore –
Till the dirges of his hope that melancholy burden bore
Of “Never-nevermore.”‘

But the raven still beguiling all my sad soul into smiling,
Straight I wheeled a cushioned seat in front of bird and bust and door;
Then, upon the velvet sinking, I betook myself to linking
Fancy unto fancy, thinking what this ominous bird of yore –
What this grim, ungainly, ghastly, gaunt, and ominous bird of yore
Meant in croaking `Nevermore.’

This I sat engaged in guessing, but no syllable expressing
To the fowl whose fiery eyes now burned into my bosom’s core;
This and more I sat divining, with my head at ease reclining
On the cushion’s velvet lining that the lamp-light gloated o’er,
But whose velvet violet lining with the lamp-light gloating o’er,
She shall press, ah, nevermore!

Then, methought, the air grew denser, perfumed from an unseen censer
Swung by Seraphim whose foot-falls tinkled on the tufted floor.
`Wretch,’ I cried, `thy God hath lent thee – by these angels he has sent thee
Respite – respite and nepenthe from thy memories of Lenore!
Quaff, oh quaff this kind nepenthe, and forget this lost Lenore!’
Quoth the raven, `Nevermore.’

`Prophet!’ said I, `thing of evil! – prophet still, if bird or devil! –
Whether tempter sent, or whether tempest tossed thee here ashore,
Desolate yet all undaunted, on this desert land enchanted –
On this home by horror haunted – tell me truly, I implore –
Is there – is there balm in Gilead? – tell me – tell me, I implore!’
Quoth the raven, `Nevermore.’

`Prophet!’ said I, `thing of evil! – prophet still, if bird or devil!
By that Heaven that bends above us – by that God we both adore –
Tell this soul with sorrow laden if, within the distant Aidenn,
It shall clasp a sainted maiden whom the angels name Lenore –
Clasp a rare and radiant maiden, whom the angels name Lenore?’
Quoth the raven, `Nevermore.’

`Be that word our sign of parting, bird or fiend!’ I shrieked upstarting –
`Get thee back into the tempest and the Night’s Plutonian shore!
Leave no black plume as a token of that lie thy soul hath spoken!
Leave my loneliness unbroken! – quit the bust above my door!
Take thy beak from out my heart, and take thy form from off my door!’
Quoth the raven, `Nevermore.’

And the raven, never flitting, still is sitting, still is sitting
On the pallid bust of Pallas just above my chamber door;
And his eyes have all the seeming of a demon’s that is dreaming,
And the lamp-light o’er him streaming throws his shadow on the floor;
And my soul from out that shadow that lies floating on the floor
Shall be lifted – nevermore!

Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
e la testa grave e assorta — non reggevami piú su,
fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.
«Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta,
solo questo e nulla più!»

Oh, ricordo, era il dicembre e il riflesso sonnolento
dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento.
Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù
a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora,
la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora
e qui nome or non ha più!

E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti
mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti!
tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su
mormorando: «È un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
questo, e nulla, nulla più!».

Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse,
mossi un passo, e: «Signor — dissi — o signora, mille scuse!
ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù
tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta,
ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:
un gran buio, e nulla più!

Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora
stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora!
ma la notte non dié un segno — il silenzio pur non fu
rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: «Lenora!»
Io lo dissi, ed a sua volta rimandò l’eco: «Lenora!»
Solo questo e nulla più!

E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte
esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte
che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quaggiù,
qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero!
Lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!
Sarà il vento e nulla più!

Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne,
grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne:
ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù,
come un lord od una lady si diresse alla mia porta,
ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,
scese, stette e nulla più.

Quell’augel d’ebano, allora, così tronfio e pettoruto
tentò fino ad un sorriso il mio spirito abbattuto:
e, «Sebben spiumato e torvo, — dissi, — un vile non sei tu
certo, o vecchio spettral corvo della tenebra di Pluto?
Quale nome a te gli araldi dànno a corte di Re Pluto?»
Disse il corvo allor: «Mai più!».

Mi stupii che quell’infausto disgraziato augello avesse
la parola, e benché quelle fosser sillabe sconnesse,
trasalii, ché, in niuna sorta — di paese fin qui fu
dato ad uom di contemplare un augel sovra una porta,
un augello od una bestia aggrappata ad una porta
con un nome tal: «Mai più!».

Ma severo e grave il corvo più non disse e stette come
s’egli avesse messo tutta quanta l’anima in quel nome:
sovra il busto, appollaiato — non parlò, non mosse più
finché triste ebbi ripreso: «Altri amici m’han lasciato!
il mattin non sarà giunto ch’egli pur m’avrà lasciato!».
Disse allor: «Mai più! mai più!».

Scosso al motto ch’or sì bene s’era apposto al mio pensiere,
«Certo, — dissi, — queste sillabe sono tutto il suo sapere!
e chi a tale ritornello — l’addestrò, forse quaggiù
sarà stato sì infelice ch’ogni canto suo più bello
come un requiem, non aveva ogni canto suo più bello
a finir che in un mai più!»

Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo:
scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo,
e qui, steso nel velluto — presi intento a studiar su
cosa mai volesse dire quel ferale augel di Pluto,
quel feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto
col suo lugubre: «Mai più!».

Così assorto in fantasie stetti a lungo, e sempre intento
all’augello i di cui sguardi mi riempivan di spavento,
non osai più aprire labro — sprofondato sempre giù
fra i cuscini accarezzati dal chiaror di un candelabro
fra i cuscini rossi ov’ella, al chiaror di un candelabro,
non verrà a posar mai più!

Allor parvemi che a un tratto si svolgesse in aria, denso
e arcan, come dal turibolo d’un angelo, un incenso.
«O infelice, dissi, è l’ora! — e infin ecco la virtù
e il nepente che imploravi per scordar la tua Lenora!
Bevi, bevi il filtro e scorda! scorda alfin questa Lenora!»
Mormorò l’augel: «Mai più!».

«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
o l’Averno t’abbia inviato — o una raffica di bora
t’abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quaggiù,
in quest’antro di sventure, di’ al meschino che t’implora,
se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!»
Mormorò l’augel: «Mai più!».

«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora
di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden, lassù,
potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!
a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!»
Mormorò l’augel: «Mai più!».

«Questo detto sia l’estremo, spettro o augello — urlai sperduto.
Ti precipita nel nembo! torna ai baratri di Pluto!
non lasciar piuma di sorta — qui a svelar chi fosti tu!
lascia puro il mio dolore, lascia il busto e la mia porta!
strappa il becco dal mio cuore! t’alza alfin da quella porta!»
Disse il corvo: «Mai, mai più!»

E la bestia ognor proterva — tetra ognora, è sempre assorta
sulla pallida Minerva — proprio sopra alla mia porta!
Il suo sguardo sembra il guardo — d’un dimon che sogni, e giù
sui tappeti il suo riflesso tesse un circolo maliardo,
e il mio spirto, stretto all’ombra di quel circolo maliardo
non potrà surger mai più!

i Per una biografia più esaustiva riguardo all’autore rispetto a quella brevemente tratteggiata nell’articolo rimandiamo a: <http://www.poemuseum.org/poes-biography> o a <https://www.biography.com/people/edgar-allan-poe-9443160>.

ii “Poesie” di Ernesto Ragazzoni; a cura di Arrigo Cajumi. Aldo Martello Editore; Milano, 1956.

iii “The Cambridge Introduction to Edgar Allan Poe” di Benjamin F. Fisher. Cambridge University Press; New York, 2008, p. 53. Cfr. <www.cambridge.org/9780521859677>.