Michelangelo Buonarroti, nato a Caprese il 6 marzo 1475 e deceduto a Roma il 18 febbraio 1564, fu un grande pittore, poeta e architetto, ma soprattutto fu uno dei più grandi scultori di sempre. Intramontabili le sue opere artistiche tra le quali:
Pietà – oggi esposta nella basilica di San Pietro in Vaticano.
David – oggi esposto nella Galleria dell’Accademia a Firenze.
Mosè – conservato nella basilica di San Pietro in Vincoli a Roma.
Creazione di Adamo – affresco facente parte della decorazione della volta della Cappella Sistina nei Musei Vaticani a Roma.
In questo articolo voglio però concentrarmi sui cosiddetti “Prigioni” ovvero un gruppo di statue commissionate per la tomba di Giulio II. Due di esse (“Schiavo morente” e “Schiavo ribelle”) sono compiute ed esposte al Louvre di Parigi. Le altre quattro (“Schiavo che si desta”, “Lo schiavo giovane”, “Lo schiavo barbuto” e “Atlante”) sono incompiute e conservate all’Accademia di Firenze. Di questi ultimi quattro vorrei però soffermarmi sullo “Schiavo che si desta”, ché la sua potenza espressiva riassume perfettamente l’intera filosofia di cui voglio discorrere.
Comincio l’analisi dicendo che non sono chiarissime le motivazioni dei suoi lavori incompiuti, quello che sappiamo è che sono molti e che possono esserlo per diversi motivi. Uno di essi è quello della sua tecnica, definita da lui stesso “del levare” (della quale parleremo poi), che non permette di ritornare sui propri passi – di conseguenza un ripensamento in corso del progetto avrebbe obbligato l’artista ad abbandonare l’opera. Altre motivazioni possono essere la sovrabbondanza di lavori simultanei, la scarsa qualità del marmo da scolpire, oppure una sua volontà di lasciare l’opera volutamente “non-finita” cosicché da rappresentare dei concetti che altrimenti non avrebbe potuto trasmettere.
Dal canto mio ipotizzo una sua non assoluta volontarietà del non-finito, ovvero non voglio azzardarmi a dare per scontato che lo facesse apposta, almeno non in ogni caso. Quello che comunque conta al fine dell’articolo è la sua tecnica, condizionata dalla sua preparazione filosofica; per tanto il discorso sulla motivazione dei suoi lavori incompiuti può dirsi concluso qui.
Discutendo invece della sua preparazione filosofica è noto che Michelangelo crebbe circondato dalle migliori menti intellettuali della sua epoca, e che a merito di ciò conobbe due dei maggiori esponenti della dottrina neoplatonica, Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, i quali influenzarono il suo pensiero e la sua formazione artistica. Difatti la sua tecnica, quella “del levare”, sintetizza perfettamente quello che era il pensiero neoplatonico, ovvero la comunione tra il pensiero platonico e la dottrina cristiana. Secondo il Maestro nel nucleo della materia si cela il soggetto che è appunto “imprigionato”. Compito dell’artista è dunque “levare” (e non come di consueto “mettere”) la materia, così da rivelare l’essenza, l’idea celata al suo interno. Questo è un chiaro riferimento alle “Idee” platoniche, le quali è possibile secondo il filosofo greco coglierle all’interno della forma corrotta: la materia. Il marmo è dunque la sostanza grezza dalla quale Michelangelo liberava l’Idea celata al suo interno. Questo richiama anche il bisogno dell’anima umana di “staccarsi” dalla materia (realtà fittizia) ed elevarsi ad uno stato superiore, spirituale, vicino alla Verità, vicino a Dio.
Lo “Schiavo che si desta” è la migliore rappresentazione pervenutaci del neoplatonismo dell’artista; infatti possiamo notare che, grazie alla sua tecnica “del levare”, dal marmo figura l’idea di un uomo – appunto un “imprigionato” nella materia – che si dimena, che tenta di svincolarsi dal marmo stesso. L’opera rimanda all’immagine di un’anima tormentata che combatte per sviscerarsi dai dolori del materiale, per elevarsi al sollievo dello spirituale. Un’agognata soddisfazione che lo “Schiavo” non raggiungerà mai perché non-finito e quindi mai affranto; costretto al tragico dolore della finitudine umana in un’eterna lotta verso l’infinito.
Ma questa è solo una lettura, forse la più autorevole, a cui si presta l’opera. Io vorrei invece proporne una personale, più affine alla filosofia esistenzialista novecentesca senza curarmi troppo di quello che avrebbe pensato Michelangelo nel crearla, quanto piuttosto prestando attenzione a ciò che l’opera in sé mi comunica.
Andando in direzione opposta al neoplatonismo io intravedo nel non-finito dello “Schiavo che si desta” il concetto di Esistenza.
Ma andiamo per ordine. Innanzitutto io non sono per niente persuaso dall’assunto metafisico di un “Mondo delle Idee” alla quale l’uomo è rivolto (o dovrebbe rivolgersi), anzi, sono del tutto convinto che l’uomo sia in un Mondo e che esista in virtù dello stesso; senza il Mondo non avremmo un luogo in cui Essere. Per come la vedo io non c’è un Mondo-altro (Vero) a cui aspirare, ma solo questo in cui vivere – appunto Esistere. Di conseguenza il nostro “Prigione” non rappresenta, per me, il desiderio di una fuga dalla materialità, anzi; la compenetrazione visiva dell’opera tra l’idea dell’uomo (lo “Schiavo”) e il materiale terreno dove prende “vita” (il marmo) rappresenta l’esistenza stessa rendendo il soggetto vivo. Perché “vivo”? E perché le statue finite non lo sono? Forse il non-finito rappresenta la nostra stessa esistenza?
Martin Heidegger, (1889 – 1976) filosofo tedesco del ‘900 e autore del pilastro filosofico contemporaneo “Essere e Tempo”, in quest’ultimo asserisce che prendendo l’essere umano nella sua totalità di possibilità lo stesso verrebbe a mancare. Questo perché fra le sue possibilità c’è anche l’unica davvero certa e indeterminata: la Morte. Di conseguenza l’uomo esiste nella sua incompletezza; di fatti quando è completo, accogliendo quindi anche la possibilità della morte, non vi è più.
Nella sua non-finitezza l’opera del Maestro rimanda direttamente a questo concetto; lo “Schiavo” è nel Mondo materiale, non-compiuto e per tanto non morto – è perciò metaforicamente esistente. Il suo stesso destarsi rinvia ad una consapevolezza del sé, di esserci, e di aver bisogno di rompere la rigidità degli schemi convenzionali delle opere scolpite dietro di lui. Lo “Schiavo”, schiavo dell’esser di marmo e soggetto all’immortalità per convenzione, si desta e si ribella all’essere infinito come Forma esistendo nella sua non-finitezza come soggetto. In fondo è proprio questo che caratterizza l’Esistenza; ovvero il non essere compiuti e di poter quindi realizzare noi stessi attraverso la Scelta, scelta da prendere tra infinite possibilità.
In conclusione io penso all’opera di Michelangelo “Schiavo che si desta” come ad un vero e proprio elogio all’Esistenza umana, la quale è tanto tragica nel perire di fronte alla sua completezza quanto meravigliosa nell’idea di esistere nella sua non-finitezza.