«Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.»

Esodo 20,4

 

Nelle religioni monoteiste si può spesso notare un forte disprezzo delle immagini, che sembra frequentemente culminare nella paura del loro utilizzo: per gli islamici vige uno strettissimo divieto a rappresentare Dio o il volto del Profeta, mentre, nel passo biblico riportato, viene esplicitamente vietato l’uso di qualsiasi immagine, quale che sia il suo contenuto, e soprattutto la venerazione di queste. La paura per le immagini non appartiene però solamente alle religioni ma anche a diverse scuole filosofiche, prima fra tutte quella platonica e neo-platonica. Il motivo di questo rifiuto delle immagini è più facile da rintracciare nella filosofia platonica, i cui testi risultano molto meno oscuri e meno intrisi di misticismo rispetto a quelli religiosi, di cui abbiamo appena qualche versetto sull’argomento.

Il disprezzo verso le immagini è da imputare principalmente alla prospettiva dualistica che permea queste scuole di pensiero: l’universo non è unico e tutto uguale ma si può dividere in due parti, un mondo materiale e un mondo immateriale. Il mondo materiale è appunto composto da materia e da corpi, che possiamo conoscere tramite i sensi e che continuano a mutare aspetto e forma: nel mondo materiale non vi è stabilità e dunque non può esservi certezza né verità assoluta, ma solamente opinione. È però tipico di queste filosofie affermare che invece esiste una verità assoluta, la quale si trova al di là del mondo materiale: la verità deve essere stabile e immutabile per essere assoluta e perfetta e dunque non può logicamente appartenere al mondo materiale, altrimenti ne condividerebbe gli attributi. Tutti coloro che hanno avuto modo di studiare, anche solo superficialmente, Platone si ricorderanno della sua teoria per cui esista un mondo delle idee, completamente privo di materia che contiene i concetti universali, immobili, immutabili e perfetti. Il mondo delle idee fa da modello per il mondo sensibile e materiale: ogni cosa che esiste nel mondo materiale infatti imita l’idea corrispondente e la replica in tanti individui composti di materia, contaminando la perfezione del concetto universale. Per il platonismo, la vera conoscenza, il lògos (che significa, non a caso, anche “pensiero” e “discorso”), è però conoscenza dei concetti universali e prevede l’astrazione dal mondo sensibile. I sensi non possono darci la vera conoscenza, poiché riescono a cogliere solo le cose materiali, le quali non compongono il vero mondo.

Secondo questa prospettiva e tenendo bene chiaro che il fine dell’uomo è la conoscenza, le opere d’arte sono dunque da rigettare in toto: le immagini sono imitazioni della natura, la quale è imitazione del mondo delle idee. Se già la prima copia non può portarci alla conoscenza, una copia al quadrato può soltanto allontanarci ancora di più dalla Verità e dal lògos. Le immagini sono quindi concepite in antitesi non soltanto rispetto alla conoscenza perfetta ma anche rispetto al pensiero e al discorso, ovvero il metodo con cui giungere alla verità. La riflessione relativa alle immagini mette in risalto due ulteriori aspetti che vanno considerati: il primo è relativo al carattere passionale delle immagini e il secondo relativo alla loro utilità. Le immagini sono infatti in grado di scatenare negli esseri umani che le osservano passioni e forti sentimenti, questo è un dato di fatto di cui chiunque si può rendere conto: nell’ammirare una opera d’arte, una persona può sentirsi trascinare da desideri o altre emozioni. D’altra parte però le immagini hanno anche un fortissimo potere comunicativo e possono portare l’uomo verso la conoscenza con un percorso molto più breve e immediato rispetto alla lenta costruzione del pensiero e del discorso ragionato. Lo stesso Platone se ne rende conto, dato che, secondo lui, la forma più alta di conoscenza delle idee è “l’intuizione”, ovvero letteralmente la “vista-dentro”. Il problema è che, nonostante l’immediatezza della intuizione dei concetti universali tramite le immagini, questa resta soltanto una possibilità poco probabile: le persone troppo abituate al mondo sensibile si lasciano trasportare dalle passioni che scaturiscono dall’opera d’arte e non vanno oltre. Il fatto che gli uomini siano propensi a considerare le immagini un fine più che un mezzo per la conoscenza e ad osservarle e goderne è alla base del rigetto che anche le religioni del libro ostentano. Le immagini possono portare soltanto all’idolatria, ovvero alla venerazione dell’immagine stessa e non di colui che vi è rappresentato.

Tutte le religioni del libro quindi rifiutano le immagini, ritenendo, come il platonismo, che la Verità non si trovi nel mondo materiale ma che si trovi presso Dio, trascendente rispetto al nostro mondo. Se però questo è vero, perché allora i cristiani, la cui impostazione teologica è diretta discendente del platonismo in ogni suo aspetto[1], disegnano e scolpiscono Dio nei propri luoghi di culto? Una riflessione seria sul tema delle immagini all’interno del mondo cristiano si rese necessaria a partire dall’VIII secolo, a causa dello sviluppo del movimento iconoclasta. Diverse autorità religiose e politiche, prevalentemente nell’Impero bizantino ma anche in occidente, recuperarono la riflessione platonica e le condanne bibliche e giunsero alla conclusione che dipingere o scolpire Cristo o Dio o altre figure divine fosse idolatria. La questione dell’iconoclastia, da sempre latente nel cristianesimo, esplose nel VIII secolo, quando lo stesso imperatore bizantino Leone III si applicò contro l’idolatria. Gli iconoclasti (dal greco εἰκών – eikòn, “immagine” e κλάω – kláō, “rompo”) cominciarono quindi una sistematica distruzione delle icone divine e la loro sostituzione con immagini neutre, comunque di ispirazione religiosa. Senza concentrarci troppo sulla storia delle dottrine iconoclaste, che verranno definitivamente sconfitte tramite le scomuniche papali nel 787 e 843, guardiamo quali sono le risposte che vengono date in occidente al problema.

La prima trattazione del problema, seppure incompleta, è contenuta in una lettera di papa Gregorio Magno diretta ad un vescovo iconoclasta. Il pontefice insiste sul potere comunicativo delle immagini e quindi sulla loro utilità per stimolare la religiosità popolare, dato che possono sostituire il testo scritto e parlare agli analfabeti. Nella lettera papa Gregorio opera una distinzione, implicita per la società ecclesiastica dell’Alto Medioevo, tra religiosità colta e religiosità popolare: la prima si basa sulla lettura dei testi sacri e la comprensione delle liturgie in lingua latina, le quali restituiscono esattamente la Verità su Dio, mentre la seconda necessita di supporti materiali ed espedienti, come appunto le immagini. La risposta del papa è dunque pragmatica: per predicare tra coloro che non parlano latino e non sanno leggere e far giungere loro la Verità, si può correre il rischio dell’idolatria.

Una seconda risposta al problema delle immagini viene elaborata più avanti, tra il XII e il XIII secolo, ed è una risposta corale, che non si può legare alla riflessione di un solo personaggio ma piuttosto all’evoluzione dell’intera dottrina cristiana. I cristiani non devono temere le immagini perché Cristo, il quale venerano, è esso stesso una immagine. Se infatti pensiamo a cosa sono le immagini, ci rendiamo conto che esse sono la trasposizione di un concetto universale, di una idea, nella materia, trasformando così l’idea in un oggetto sensibile e individuale. Le immagini sono la materializzazione di qualcosa di immateriale e rendono possibile toccare con mano, letteralmente, ciò che è normalmente invisibile. Se quindi pensiamo alla figura di Cristo, ci rendiamo conto che svolge lo stesso ruolo: Cristo è Dio, universale, immateriale, onnipotente ed invisibile, che si fa uomo, individuo materiale, limitato e sensibile. Cristo è la Parola (ricordiamo l’importanza della “parola”, o lògos, la quale compone i testi in cui è contenuta la Verità) che si fa carne. Questo aspetto, da sempre fulcro della teologia cristiana, viene esplicitato tra il XII e il XIII secolo, nel periodo in cui si colloca la riforma francescana, la quale pone la sua attenzione sull’umanità di Gesù. Il sigillo istituzionale che viene posto a certificazione di questa riflessione è la maggiore attenzione al tema dell’eucarestia: a partire dall’XI secolo infatti i dibattiti teologici sulla reale presenza di Cristo nell’ostia consacrata portano progressivamente l’eucarestia ad essere il punto centrale della religione cristiana. L’eucarestia, che deve essere letta come celebrazione di Cristo in quanto corpo materiale, è quindi il culmine della riflessione sulle immagini e sulla rappresentazione pittorica e scultorea del divino. La festività del Corpus Domini, istituita nel 1264, nasce proprio in occasione di un miracolo a sfondo eucaristico e diventa la festa in cui si può rappresentare il divino: tutte le forme di teatro religioso (storie bibliche, storie di Gesù e storie dei Santi) si sviluppano infatti durante questa ricorrenza.

Il valore della riflessione sulle immagini e della loro piena legittimazione, non solo pragmatica ma anche teorica, non si risolve in considerazioni di carattere puramente estetico e relativo a questioni astratte di rappresentatività. Bisogna infatti ricollegarsi ad un altro punto che avevamo evidenziato, ovvero a come le immagini avessero la capacità di scatenare forti emozioni in coloro che le osservano e come questo fosse un fatto negativo. Le passioni sensibili dell’uomo lo distraggono infatti dalle cose più alte, siano queste la conoscenza o la salvezza dell’anima, che non passano certo attraverso ciò che è corrotto dalla materia. La nuova prospettiva del XII e XIII secolo non insegna soltanto che è legittimo dipingere o scolpire, tramite la dottrina del Dio fatto uomo, ma anche che è giusto provare emozioni di fronte alle immagini e che non si tratta di qualcosa di malvagio. Il punto più alto della vicenda di Cristo-immagine è infatti la sua Passione, che rappresenta anche il momento maggiore somiglianza tra il Dio e l’uomo. Come dicevamo, questa non è una riflessione astratta e non è nemmeno una riflessione limitata a temi religiosi: i risultati di essa passano rapidamente dal piano dottrinale a quello estetico e infine nel senso comune della popolazione europea. La piena legittimazione delle immagini agli occhi di tutti diventa infatti il principale motore per le rapide trasformazioni della pittura e scultura europea, che proprio a partire dal XII e XIII secolo comincia a distinguersi sempre di più da quella bizantina e ad evolversi in forme sempre diverse. Se pensiamo ai grandi innovatori dell’arte medievale (Giunta Pisano, Cimabue, Giotto, etc.), notiamo che tutti operano in questo periodo, prendendo le distanze dai fondi dorati delle icone bizantine e dando vita ad opere d’arte che si pongono, trai propri fini, non solo quello di raccontare e insegnare, ma anche quello di emozionare. Una volta legittimata questa tendenza, l’evoluzione dell’arte europea diventa quasi un percorso già scritto, o meglio già disegnato.

[1] Nietzsche definisce il cristianesimo, non a torto, come un «platonismo per il popolo» (Al di là del bene e del male).