La musica è in rapporto col silenzio non solo nell’opera di artisti come John Cage (cfr. articolo in merito su questo stesso sito), ma lo è strutturalmente e al di là delle sue caratterizzazioni stilistiche e storiche. Non c’è modo di separare una cosa dall’altra, pena la morte del suono o la fine della forma, in favore di un eterno glissando informe. L’obiettivo di questo breve approfondimento è quello di proporre, sulla scorta di alcuni studi già esistenti (è possibile trovare, anche online, gran parte degli studi sul tema ad opera di Piana, Jankelevitch, Ferrari, Migliaccio, Clifton, Lissa, Margulis) e di una sistematizzazione originale, una tassonomia del silenzio, che renda conto di alcune delle articolazioni principali mediante le quali il silenzio si rapporta costantemente col suono nell’arte musicale. È anzitutto necessaria una distinzione primaria tra quelli che potremmo chiamare silenzi primordiali, sempre già esistenti e condizione di possibilità perché qualcosa come la musica esista, uno sfondo necessario, e quelli che potremmo definire silenzi archetipici, ossia forme frequenti e/o strutturali che però nascono con la musica, nel dialogo con essa. Ci occuperemo in questo primo articolo della prima categoria, la più astratta se vogliamo, ma che bene ci spiega perché la musica sia a priori in rapporto necessario col silenzio, per poi occuparci di quelle incarnazioni più concrete e intuitive del silenzio, ma che sono altrettanto necessarie per la vita della musica, in un prossimo articolo.

Nel suo libro Filosofia della musica,[1] Giovanni Piana non può esimersi dall’indicare il silenzio come il primo degli elementi costituenti la materia di cui è fatta la musica. Possiamo immaginare il silenzio come un foglio di carta opaco, dalla superficie continua e omogenea, che viene lacerato da quella lama che rappresenta il suono. Questa immagine rimanda a un’idea puramente negativa del silenzio, come pura assenza di suoni, totale privazione, un silenzio profondo che è livello zero del suono e che non si dà mai davvero all’esperienza (il silenzio non compare mai nella sua forma assoluta[2]). Inoltre è forse più giusto parlare del silenzio come più generico fondale per la scena musicale, dal momento che nel caso del foglio, se il disegno/suono viene meno, rimane una pagina bianca con significati soltanto in potenza, e soprattutto fatta dall’uomo; il silenzio invece è gravido in modo diverso, e può solo essere distrutto dall’uomo.[3] Ma il foglio può anche essere lievemente increspato e non perfettamente esente da impurità, e ciononostante rimanere un supporto valido perché si possa continuare a cogliere il disegno tracciato su di esso. Allora il silenzio diviene una trama di brulichii, diviene un silenzio mormorante, che rimane sullo sfondo e perlopiù non viene notato. Abbiamo così sviscerato i due aspetti primari del silenzio: il silenzio profondo e il silenzio mormorante.

Il silenzio mormorante è una sorta di secondo fondale scenografico, appena avvertito o non avvertito affatto, necessario a delimitare la scena e conferirle vitalità interna: un elemento vivificatore dunque, realtà vivente che forse non si nota mentre è presente, ma che quando manca questo risulta evidente, e con la sua assenza svuota la scena. Allora si fa avanti il silenzio profondo: la scena non è più avvolta e protetta, ma aperta e sospesa nel vuoto, tutto lo spazio dei suoni viene tolto e ogni cosa diviene confusa. Il silenzio è divenuto una vuotezza disarmante, mortale.

La nostra esistenza ha bisogno di un mormorio discreto, e così vi è anche una condizione sonora per la percezione della vitalità stessa della vita.[4]

Il silenzio mormorante è la condizione di possibilità di ogni suono, è quell’impasto che contiene già tutte le ragioni seminali dei suoni che sapranno emozionarci.

Come la luce e l’ombra nella pittura, come la massa e il vuoto nella scultura, così il silenzio e il suono costituiscono il binario essenziale di ogni opera musicale. […] Il silenzio appartiene alla struttura fondamentale della musica. Esso chiarifica, purifica, essenzializza il suono, gli dà la profondità di cui ha bisogno, gli consente di respirare. Il silenzio può stare senza la musica, ma la musica non può stare senza il silenzio.[5]

La musica è in rapporto costante col silenzio: anche quando non è materialmente presente esso agisce come sfondo, come rimando implicito, come dimensione di senso. Tra i due elementi esiste un’intera gamma di relazioni che vanno dall’evocazione al rimando implicito, dall’allusione al comando. Si direbbe che una delle sorgenti della ricchezza espressiva della musica sia proprio questo rapporto.[6]

In fin dei conti, potremmo dire che quel silenzio è in nuce tutta la musica e tutte le sue proprietà espressive, in un solo e onnipotente mormorio. Si potrebbe addirittura dire che la musica sia silenzio, perché il silenzio non è mai non essere, in quanto può essere ricercato/rifiutato ed è differenziabile,[7] bensì si contrappone a quell’essere che è il rumore, specialmente il rumore verbale, che la musica, come silenzio privilegiato, sa mettere mirabilmente a tacere, in un’alleanza col silenzio che risulta fatale per ogni altro suono.[8]

È dal silenzio che sgorga la musica, e questo è vero tanto per l’esecutore che per l’ascoltatore:[9] prima dell’esecuzione il silenzio dà all’esecutore la possibilità di ripercorrere rapidamente ciò che lo aspetta, un momento di concentrazione che precede il regno della musica a cui sta per dare vita; l’ascoltatore invece si crea aspettative sul brano fin dalle prime note, e questo è possibile soltanto se il brano ha modo di nascere lontano dall’aborto di cui minaccia il rumore. In particolare anche le conoscenze e le circostanze possono modellare il silenzio iniziale e renderlo percettivamente diversificato da ogni altro silenzio simile, apparentemente indiscernibile.[10] È vero, inoltre, che la musica in ogni caso ritorna al silenzio, quel silenzio primigenio che ne costituisce la primaria condizione di possibilità.[11] È da questo sostrato primario che parte la nostra ricerca, da un brodo primordiale che forse non è ancora espressione, ma che contiene già in sé tutto ciò di cui avremo bisogno per farci strada tra le incarnazioni musicali di un simile silenzio.

In questo silenzio, ora si odono suoni.[12]

[1] G. Piana, Filosofia della musica, Guerini, Milano 1991; II ed. (consultata) 2013, pp. 65-67.

[2] Z. Lissa, Aesthetic Functions of Silence and Rests in Music, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism, vol. 22, n. 4, estate 1964, p. 444.

[3] T. B. Pitfield, Music and Silence, «The Musical Times», vol. 100, n. 1392, gennaio 1959, p. 17.

[4] G. Piana, op. cit., p. 67.

[5] M. Baldini, Le dimensioni del silenzio, Città Nuova, Roma 1988, p. 35.

[6] E. Ferrari, Ascoltare il silenzio. Viaggio nel silenzio in musica, Mimesis, Milano 2013, p. 33.

[7] V. Jankélévitch, La musica e l’ineffabile (1961), Bompiani, Milano 2001, pp. 116-117.

[8] Ivi, pp. 118-119.

[9] W. Mahrt, Silence, «Sacred Music», n. 143, primavera 2016, p. 3.

[10] E. H. Margulis, Moved by nothing. Listening to Musical Silence, «Journal of Music Theory», vol. 51, n. 2, autunno 2007, p. 245.

[11] W. Mahrt, op. cit., p. 3.

[12] G. Piana, op. cit., p. 68.