Melancholia (2011) è il secondo capitolo della “Trilogia della Depressione” diretta da Lars Von Trier, formata oltre che dal film in oggetto anche da Antichrist (2009) e da Nymphomaniac (2014), forse il più riuscito, sicuramente il più emblematico per il titolo della trilogia. Se Antichrist infatti si sofferma sui problemi individuali e di coppia di due genitori “colpevoli” della morte del figlioletto, in tutte le conseguenze orrorifiche del caso, per poi slittare verso l’atroce e il misterico, Nymphomaniac rimane ancorato coi piedi per terra e racconta la (lunga) storia di una ninfomane e del suo rapporto con la malattia dall’infanzia all’età completamente adulta. Ma è Melancholia l’unico dei tre film che tematizza in modo esplicito la depressione, peraltro in un modo perfettamente equilibrato tra il surrealismo di Antichrist e il crudo realismo di Nymphomaniac. Insomma, un episodio di mezzo che fa del tipico “non essere né carne né pesce” (che spesso va ad inficiare la qualità degli episodi centrali) il proprio punto di forza.

Il film parla di Justine e di Claire (e sono proprio questi i titoli dei due capitoli in cui l’opera è divisa), due sorelle profondamente diverse nel carattere ma in qualche modo molto legate. Legate anzitutto da genitori problematici, come il film non manca di farci notare già dopo i primi minuti: il padre sembra una persona allegra nella sua goffaggine, ma evidentemente poco ligio ai propri doveri di famiglia; la madre è invece una persona burbera e conflittuale, e non stupisce che i due personaggi, tra loro del tutto incompatibili, siano divorziati e non si risparmino in alcun modo di attaccarsi persino in un contesto come il matrimonio della figlia Justine. È proprio quest’ultima che pare soffrire maggiormente della situazione genitoriale, dato che al momento di tensione tra i due genitori Claire reagisce lamentandosi con la madre, Justine invece passa dall’essere la felice sposa amata da tutti al rivelare la propria vera identità, in un crescendo di disagio che la porterà a rovinare il proprio matrimonio dopo poche ore, dapprima isolandosi e iniziando a comportarsi in modo anomalo, poi nascondendosi dietro falsi sorrisi, infine rifiutando di consumare il matrimonio col marito salvo poi praticamente stuprare un ragazzo conosciuto da pochi minuti mediante il suo datore di lavoro. Claire, che ha organizzato la festa grazie ai fondi messi a disposizione dal benestante marito John, intuisce il disagio di Justine e continua ad ammonirla, ma anche a cercare di evitare che le cose degenerino. La madre, invece, rimane fredda nei suoi confronti anche quando lei ammette di essere terrorizzata, mentre il padre si dimostra più affettuoso ma di fatto fugge dalla festa quando intuisce che qualcosa di serio è in atto nella richiesta della figlia di potersi confrontare con lui. Il risultato è che la ragazza perde il lavoro dopo uno sfogo davanti al datore di lavoro e perde anche il marito, con grande disappunto della sorella che tanto si era impegnata per lei, credendo di renderla felice. La seconda parte del film è più incentrata su Claire, ma Justine rimane centrale, anche se molto degenerata rispetto a come l’avevamo conosciuta nella parte di film a lei dedicata. Tuttavia il vero protagonista del capitolo è Melancholia, il pianeta “nascosto dietro al sole” che sta per passare vicino alla terra regalando e uno spettacolo unico all’umanità, senza la minima possibilità di collisione. Inutile dire che in realtà le possibilità sono tutt’altro che inesistenti, e che in effetti il film termina proprio con la distruzione del pianeta Terra ad opera della collisione con Melancholia. Nella seconda parte del film, appunto, Claire cerca di credere al marito, appassionato di astronomia, quando la rassicura sul lieto fine che li aspetta, ma deve infine riconoscere che Justine davvero “sa cose” (come lei stessa afferma), dal momento che, per ragioni mai del tutto chiarite, lei aveva sempre affermato che la vita sulla Terra (malvagia, di cui nessuno sentirà la mancanza, nonostante sia l’unico esempio di vita nell’universo, per riciclare i suoi commenti a riguardo) fosse prossima alla fine.

Ciò che colpisce in primo luogo del film è il modo in cui viene rappresentata l’Apocalisse. Il pianeta Melancholia si avvicina alla Terra e anche quando è chiaro il destino del mondo non assistiamo mai a scene apocalittiche, panico di massa e dinamiche stereotipate di questo tipo. Il tutto è rappresentato in modo estremamente intimistico, con quattro personaggi e toni tendenzialmente molto pacati (ma intensi). Vero che non si tratta di un disaster-movie hollywoodiano, ma forse c’è qualcosa di più dietro a questa scelta. Nella seconda parte del film Justine è totalmente fagocitata dalla depressione, e la performance clamorosa di Kirsten Dunst ci porta direttamente nell’occhio del ciclone, nella sua Apocalisse. L’impressione è che ciò che viene mostrato sullo schermo in fondo non sia altro che un’esternazione di ciò che sta accadendo dentro Justine, una manifestazione sensibile di qualcosa che sfugge allo sguardo ma non al sentimento. Melancholia, complice anche il nome, non è tanto un enorme pianeta in collisione con la terra, ma la depressione in collisione col mondo interiore di Justine. Un mondo interiore fatto unicamente delle persone che sono a lei collegate (nel film non esistono personaggi che non siano collegate col suo matrimonio o che, dopo il fallimento dello stesso, non coincidano con gli unici parenti che si curano ancora di lei) e che se fin dall’inizio del film è minacciato dal suo psico-astrale nemico (già dopo pochi minuti Justine è attratta quasi provvidenzialmente da Antares, che attirerà di nuovo la sua attenzione quando sarà sparita, in quanto coperta proprio da Melancholia), è solo nella seconda parte del film che esso si trova in uno stato di caduta libera, dotato di un ambiente sempre più stretto, popolato solo dai parenti più cari, destinati a morire insieme a lei.

C’è anche un altro elemento che appare evidente fin dalla prima visione del film: Justine è l’unica che, quando Melancholia è ormai vicino e la terra appare spacciata, rimane solida e composta, mentre tutti gli altri cadono nel panico: Claire, dopo aver scoperto il suicidio del marito (che, sommo rassicuratore delle scene precedenti, è infine il primo a cadere, nel modo più vile), diventa incapace di fare qualunque cosa, e suo figlio quasi non parla più, celando la sua paura dietro una coltre di silenzio. Justine invece è quasi impassibile davanti agli avvenimenti, cosa che emerge con particolare forza dopo che l’abbiamo seguita per tutto il resto del film in un percorso emotivo instabile e fatto di estremi. I suoi sostegni di sempre sono ora diventati dei ramoscelli incapaci di reggersi in piedi da soli, i ruoli sembrano scambiati ed è proprio Justine a guidare, quasi fieramente, i familiari superstiti verso la fine del mondo. Questo aspetto potrebbe essere spiegato dal fatto che, a quanto pare, Lars Von Trier si è reso conto mediante la propria esperienza con la depressione che le persone depresse hanno una maggiore capacità di mantenere la calma in una situazione di stress. Questa spiegazione avrebbe senso anche se ci limitassimo ad applicarla a ciò che il film mostra in modo manifesto, ossia la storia di una famiglia che, tra le tante, viene distrutta da un evento apocalittico. In questo contesto c’è semplicemente un membro della famiglia che riesce a reagire alla situazione, in quanto depresso, in modo più pacato degli altri. Tuttavia potrebbe non essere tutto qui, dal momento che chiamare Melancholia il pianeta e mettere una depressa a guidare il film pare una mossa troppo sensata per poter essere puro frutto del caso, e sarebbe sprecata se non fosse dotata di un significato profondo, cosa che è più che lecito aspettarsi da un regista che, solo pochi anni prima di Melancholia, ha firmato un film ad alto contenuto metaforico come Antichrist.

Quindi come possiamo leggere metaforicamente questo elemento? Come si diceva, Justine dimostra fin da subito una sorta di connessione col pianeta (un po’ come i cavalli dimostrano di averla, ma forse più per un qualche tipo di influsso astrale). Allo stesso modo, quando la vediamo felice al suo matrimonio, la malinconia è sempre presente, sotterranea ma raggelante in ogni momento. In fondo, la ragazza sa da sempre di stare indossando una maschera (la Dunst ce lo rivela con i suoi sorrisi forzati mentre ripete alla sorella che quella festa è davvero quello che vuole e che davvero si sente felice), una maschera come quella che rappresenta Antares nei confronti di Melancholia, a cui presto dovrà cedere il posto in primo piano, così come i falsi sorrisi di Justine lasciano il posto alle sue atrocemente vere lacrime. Quindi la depressione è sempre lì, e Justine la sente, è da lei richiamata all’ordine. E man mano che Melancholia si avvicina, la situazione di Justine non degenera, tutt’altro: migliora (e così pare accadere ai cavalli). Diviene sempre più padrona di se stessa e sembra quasi idolatrare il pianeta, al punto da uscire nuda di casa e sdraiarsi in riva a un fiume a contemplarlo durante la notte. Questo perché in fondo Melancholia è il suo mondo, quello chiamato a far piazza pulita di quella vita cattiva che Justine cita in riferimento alla vita terrestre (unica esistente secondo lei) durante il suo ultimo dialogo esteso con la sorella. Il mondo della depressione sta prendendo posto del mondo che non è in grado di rendere davvero felice Justine, quello fatto di genitori insensibili e perdigiorno, di approfittatori e persone sgradevoli, tutte persone che l’hanno abbandonata (o che lei ha abbandonato) dopo la prima parte del film, o forse già prima. E ora tocca ai superstiti, con cui però Justine vuole rimanere insieme fino all’ultimo istante, prima di isolarsi in una dimensione in cui l’altro non esiste più, prima di abdicare al mondo. John, il marito di Claire, è evidentemente il personaggio meno legato a Justine (lo capiamo dal fatto che non parlano quasi mai tra loro e che nella prima parte del film veniamo a sapere che John è più preoccupato alle spese che sta sostenendo per finanziare la festa di matrimonio che non della soddisfazione di Justine), e infatti muore prosaicamente prima ancora che le cose si mettano davvero male. Lui è un uomo razionale, e appena capisce che qualcosa di imprevisto sta accadendo cade nel panico, e con la sola certezza di non avere scampo (sempre perché la razionalità ormai così suggerisce) ingerisce un mix mortale di farmaci. Un depresso, nell’esperienza di Von Trier, non l’avrebbe mai fatto, e infatti Justine non lo fa. Al contrario di John, però, la sorella e il nipotino hanno in fondo ancora un posto speciale nel cuore di Justine, e nonostante cadere nelle braccia della depressione sia comunque meglio che vivere in un mondo malvagio, anche se munito di qualche caro superstite, la nostra protagonista prova a portarseli con sé fino alla fine, e forse oltre, sia pure con risultati discutibili.

Un ultimo elemento che rimane abbastanza criptico è il fatto che Justine dimostri di sapere cose che non dovrebbe logicamente sapere (come il numero uscito all’estrazione a premi del matrimonio, di cui sappiamo che non può aver saputo nulla). Una sorta di second sight che Von Trier attribuisce al personaggio o in generale alle persone depresse, oppure un elemento inserito senza troppa cura all’interno di un contesto concettualmente ricco, magari per richiamare l’attenzione su alcuni elementi collaterali che possono permettere di svelare la trama profonda di cui sopra (o stimolare molte e molte altre interpretazioni)? Ancora una contrapposizione tra la razionalità di ciò che John rappresenta e la conoscenza emotiva di Justine o forse solo di una sottolineatura del fatto che ci troviamo nel mondo di Justine, che lei sa le cose perché siamo dentro di lei, probabilmente molto più brava a guardarsi dentro che non a relazionarsi col prossimo? O ancora, potrebbe essere un altro modo non particolarmente significativo di evidenziare la forza e la sensibilità che la depressione sembra portare con sé? Magari questo comportamento di Justine quasi fantascientifico, che la fa quasi sembrare un alieno, vuole accentuare la sua appartenenza a un mondo altro, quello di Melancholia? Il problema è che quello che Justine afferma da un lato sembra fondarsi in fatti che ne confermano un effettivo potere (la questione della lotteria), dall’altro invece in affermazioni che sembrano molto generiche, poco fondate, a tratti deliranti (il fatto che sappia che non c’è vita fuori dalla Terra, che comunque giudica cattiva in modo quasi infantile, così come in generale quasi capriccioso pare il suo comportamento in generale). Forse affermare che la vita è solo sulla Terra ma è qualcosa di orribile va a indicare il fatto che Justine si rende conto che la sola vita possibile per lei in quanto essere umano è quella tra i suoi simili, giacché quella da depressa (la vita su un altro pianeta, quello della depressione, Melancholia) non è vera vita. Ma ancora una volta la spiegazione non riesce a porsi in quel sottile limbo tra fatti, fantasia e psicologismo che la pellicola sembra suggerire come chiave di lettura in questi passaggi.

A parere di chi scrive la cosa più prudente e apparentemente coerente da affermare in questo senso è solo che il potere (o presunto tale) di Justine vuole probabilmente sottolineare in un modo o nell’altro il suo avvenuto innalzamento sopra i suoi simili, grazie alla sua sensibilità da depressa e la sua affinità col pianeta in collisione con la Terra, e probabilmente anche la messa in moto di una particolare visione azionata dalla malinconia imperante nelle persone predisposte a un dialogo con essa. Del resto non è forse vero che la stessa creazione artistica, che Von Trier conosce bene, nasce molto spesso proprio da una sensibilità altra che solo la malinconia può sbloccare? Sapere le cose non significa necessariamente conoscere il numero della lotteria di cui non si è mai saputo nulla, e anzi, forse questo stratagemma così concreto è la vera metafora che l’autore ci propone per capire, attraverso un elemento diegetico non necessariamente da intendere in modo logico-realistico (così come l’intero film è in bilico tra realtà e viaggio interiore) che il punto è solo che, in generale, sapere le cose è anche e soprattutto saperle guardare dalle lenti deformanti dell’interiorità, responsabili di un’alterazione che tuttavia, molte volte, può mettere in contatto punti nevralgici del reale che nascondono insospettabili verità. Una speciale Weltanschauung innescata proprio da una vibrazione simpatetica con il pianeta errante.