Chiunque si approcci per la prima volta al pensiero romantico non può fare a meno di notare un parametro che rimane costante in ogni tentativo di analisi del cosmo: la piccolezza dell’uomo al cospetto della natura e il terribile potere che questa esercita sul singolo individuo. In questa sede vorrei analizzare con occhio critico il rapporto che si instaura tra la visione romantico-trascendentalista e il mondo musicale-sonoro all’interno di The Mantle, seconda opera del gruppo statunitense Agalloch.

Formatasi a Portland (Oregon) nel 1995 e scioltasi nel 2016 la band di John Haughm si è posta, nel corso degli oltre vent’anni di attività, come una delle realtà più interessanti all’interno del panorama più sperimentale ed ecclettico del metal estremo. Nel corso della loro carriera gli Agalloch hanno pubblicato cinque album ed un numero considerevole di EP. Concentrerò la mia analisi sul secondo album, intitolato The Mantle, che vide la luce nel 2002. Porrò l’attenzione soprattutto sulle sonorità utilizzate e sul rapporto di queste con fattori extra-musicali. Ritengo infatti che tale lavoro rappresenti una delle più compiute trasposizioni in musica del concetto tipicamente romantico di Sehnsucht e di ciò che, prima che il pensiero romantico ne elaborasse le teorie, Immanuel Kant definiva “Sublime”. Sublime per Kant è un sentimento caratterizzato da una sensazione di terrore, che deriva dall’essere sovrastati da qualcosa di immanente, di immensamente grande. Per il filosofo tedesco questo sentimento non ha però connotazione negativa in quanto permette all’uomo di realizzare di possedere facoltà che vanno oltre l’immediata esperienza sensibile. La Sehnsucht è sempre un sentimento ma legato alla malinconia, al desiderio di possedere qualcosa che risulta però incomprensibile perché troppo grande e, kantianamente, Sublime. Gli Agalloch di The Mantle elaborano questo materiale tematico filtrandolo attraverso l’arte che più di ogni altra venne glorificata dal pensiero romantico: la musica. In un tentativo di analisi del rapporto musica-Sehnsucht si pongono ora due domande fondamentali:

  • È possibile rendere questi concetti di sublime e Sehnsucht attraverso la sperimentazione sonora?
  • Quali suoni potranno costituire una scelta espressiva atta ad interiorizzare (o, perlomeno, a rendere) una filosofia il cui concetto chiave è la grandezza dell’universo all’interno del quale l’uomo è inscritto e il rapporto di quest’ultimo col cosmo?

La risposta alla prima domanda è affermativa. Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, il cui pensiero è successivo a quello romantico, affermava infatti che la musica consiste in “metafisica in suoni”, capace di mettere in contatto l’uomo con le radici stesse della vita e dell’essere. La musica ha quindi la possibilità di rendere tanto il ciclo vitale quanto il rapporto dell’uomo con l’universo di cui fa parte.  il secondo quesito, a parere di chi scrive, non ha una risposta univoca. L’universo sonoro ha infatti possibilità pressoché infinite di sperimentazione. Esistono quindi numerose alternative per costruire una relazione musica-Sehnsucht. Se ho deciso di concentrarmi su un solo caso particolare in cui questa relazione si manifesta, ovvero quello di The Mantle, è perché credo risulti estremamente interessante (se non addirittura destabilizzante) il fatto che la scelta della band di Portland si orienti su una commistione di generi tra loro molto differenti come black metal, doom metal, dark ambient, neofolk e post-rock in cui ogni peculiarità stilistica di ogni genere utilizzato risulta essenziale alla resa finale: la grandezza della natura e il ciclo vitale che persiste all’interno di quest’ultima. Una sterile classificazione dei generi suddetti credo sia però priva di utilità, in quanto la riduzione delle sonorità utilizzate ad una semplice etichetta ci dice poco riguardo alle potenzialità espressive di quelle sonorità (problema questo che affligge soprattutto la popular music, all’interno della quale il continuo tentativo di classificazione ha come unico effetto quello di disorientare neofiti e non).

Mi concentrerò quindi maggiormente sui suoni e sulle caratteristiche da questi evocate, considerando il genere che le racchiude unicamente come un insieme di eventi sonori le cui coordinate stilistiche rimangono molto precarie e aperte al cambiamento. Se dovessimo tracciare una panoramica (molto sommaria) delle sonorità e dei topoi sonori utilizzati dagli Agalloch in The Mantle potremmo ricavare la seguente tabella:

Genere

Peculiarità sonore

Richiami extramusicali

Black metal

Suono fortemente distorto, voce urlata, sofferta e lacerante, ritmi  generalmente veloci e sostenuti gelo, angoscia, dolore, furia, malinconia, morte
Doom metal Suono distorto, ritmi tipicamente lenti e cadenzati Immanenza, immaginario funereo, malus vivendi, esistenzialismo
Dark ambient Suono elettronico o acustico, cupo, atmosferico e avvolgente. Voce (quando presente) generalmente o maestosa o sussurrata Oscurità, inquietudine, suspense, terrore, malinconia, misticismo
Neofolk

Suono acustico, spesso cupo, con connotazioni etniche. Molto più raramente suono elettronico. Voce pulita, spesso sussurrata

Natura, tribalismo, panteismo, legame ancestrale, misticismo
Post-rock Suono sperimentale, strumentale, ipnotico. Preminenza del suono chitarristico

Ipnotismo, malinconia, trascendenza

Ritroviamo quindi molti concetti tipicamente romantici (immanenza, inquietudine, natura, malinconia ecc…) ma soprattutto il richiamo costante al ciclo vita-morte e allo stato malinconico di chi brama qualcosa che non può avere (Sehnsucht). Tutti gli stilemi di cui ho detto sopra possono amalgamarsi alla perfezione proprio grazie ai richiami extramusicali che condividono. Potremmo dire che è il livello semantico a consentire la commistione di unità stilistiche che non hanno nulla in comune a livello di peculiarità sonore. Se le sonorità generalmente associate al neofolk e al dark ambient possono condividere elementi a livello stilistico lo stesso non può dirsi di quelle di black metal e post-rock. È quindi il concetto di Sehnsucht, che coniuga natura, dolore, malinconia, terrore ed immanenza a costituire il filo conduttore di una sperimentazione sonora così complessa. Non è certo un caso che una delle tracce di The Mantle rechi il titolo The Hawthorne Passage, in riferimento al poeta trascendentalista statunitense Nathaniel Hawthorne e adotti come elemento sonoro principale soluzioni post-rock. O che il fronte del CD rechi una citazione di Ralph Waldo Emerson, poeta statunitense e probabilmente maggior esponente del trascendentalismo:

“The happiest man is he who learns from nature the lesson of worship”

(“l’uomo più felice è colui che apprende dalla natura la lezione della venerazione”)

Questa citazione emersoniana può riassumere l’essenza stessa di The Mantle: un’incarnazione sonora del trascendentalismo che da quest’ultimo trae lo spunto per orchestrare al meglio le possibilità offerte dall’universo sonoro. Potremmo spingerci oltre ed affermare che la concezione romantica e  trascendentalista della natura costituisce per gli Agalloch di The Mantle una fonte dalla quale “apprendere” verso quali scelte stilistiche (in questo caso sonore) orientare le proprie capacità compositive all’interno di ciò che un filosofo come Michel Foucault definirebbe “Episteme”, ovvero la struttura aprioristica all’interno della quale sono venute a formarsi scienze, filosofie ed arti nel corso di ogni tempo.

The Mantle si configura, in pieno accordo con il pensiero schopenhaueriano, come la rappresentazione dell’esistenza dell’uomo, la sua vita e la sua morte. Dal pensiero trascendentalista gli Agalloch recuperano il rapporto dell’uomo con la natura, attraverso il quale egli si definisce e apprende “la lezione della venerazione”. All’interno di questa operazione mi sembra evidente anche il ruolo del sentimento kantiano del Sublime che, in virtù dell’oggetto che lo scatena (l’immanenza naturale in questo caso), consente di staccarsi da un’immediata e semplice soluzione sonora(che Kant potrebbe chiamare “Intuizione”) per ricercare invece sonorità più complesse, che vadano oltre l’assimilazione immediata. Il ciclo vita-morte pervade l’intero lavoro, che si apre proprio con una celebrazione della morte dell’uomo, A Celebration For The Death Of Man… una breve ouverture strumentale all’interno della quale possiamo già trovare una commistione di sonorità tra loro molto differenti, quali:

  • Sonorità neofolk
  • Sonorità (dark) ambient
  • Sonorità doom metal

Ognuno di questi microcosmi sonori adotta soluzioni differenti ed ha un ruolo di resa ben preciso all’interno del macrocosmo sonoro che li comprende. In particolare:

  1. Le sonorità neofolk sono realizzate mediante l’utilizzo di timpani e chitarre acustiche. Sono le prime a manifestarsi, Le chitarre eseguono in ostinato un giro costituito da accordi di Mi minore, La sospeso, La minore, Do settima maggiore, Do nona, La sospeso, La minore, Do maggiore per poi concludere sul Mi minore. L’effetto ottenuto è un richiamo tribale e solenne, senza alcuna contaminazione del mondo moderno. Soprattutto gli accordi minori e sospesi contribuiscono a creare un effetto di crescendo e tensione, mentre l’accordo di nona introduce un momento di quiete, subito interrotto da un nuovo accordo sospeso. Lo scenario dipinto dalla musica è assimilabile a quello di un rito.
  2. Le sonorità (dark) ambient sono le seconde a manifestarsi, realizzate con l’ausilio di sintetizzatori che producono un bordone costituito da un bicordo formato dalle note Re e Sol, lasciato durare dall’inizio alla fine. In questo caso più che di dark ambient sarebbe opportuno parlare solamente di ambient, dal momento che considerata di per sé questa sonorità non risulta particolarmente legata ad un immaginario oscuro. Tuttavia è proprio grazie al rapporto con le altre due sezioni che il suono sintetizzato opera un commento sonoro indubbiamente mistico ed avvolgente proprio in virtù della sua continuità: dal momento della sua comparsa non vi è un solo momento in cui cambia d’intensità, proseguendo anche dopo l’ultimo accordo suonato dalla chitarra acustica e andando a fondersi con l’eco della distorsione della chitarra elettrica prima di svanire completamente. La cornice sonora creata dal bordone conferisce un’aura sacrale al rito introdotto da timpani e chitarra.
  3. Le sonorità doom metal emergono per ultime, sotto forma di 5 powerchords (Mi, La, Do, La, Do) suonati in ostinato fino alla fine del brano da una chitarra elettrica fortemente distorta. Ogni powerchord è suonato in corrispondenza di un cambio di accordo suonato dalla chitarra acustica e tenuto in corrispondenza delle variazioni armoniche degli accordi che condividono la stessa nota fondamentale (il powerchord di Mi è suonato sul Mi minore, quello di La è suonato sul la sospeso e tenuto sul la minore, quello di Do sul Do settima maggiore e tenuto sul Do nona e infine suonato sul Do maggiore).  Il powerchord, essendo un bicordo formato da una nota e la sua dominante e caratterizzato dall’assenza dell’intervallo di terza, impedisce all’ascoltatore di distinguere la modalità dell’accordo stesso (in altre parole, se l’accordo sia maggiore o minore) risultando quindi una scelta espressiva molto versatile. Inoltre la sola presenza di tonica e dominante rende il powerchord dotato di una sonorità molto piena. Proprio grazie alla potenza prodotta dai powerchords il suono elettrico rompe molto bruscamente l’atmosfera puramente naturalistica creata da timpani, chitarra acustica e sintetizzatori. L’effetto è spiazzante e disturbante ma la dimensione rituale non viene meno e anzi prosegue in maniera solenne e cadenzata ma con un elemento in più: è stata introdotta la presenza umana, che esercita la propria azione all’interno della natura. Presenza destinata a durare fino alla fine del brano, quando la potenza del powerchord viene gradualmente ridimensionata fino a raggiungere lo stato di eco prodotto dal suono distorto in decrescendo. Eco che di fatto conduce l’ascoltatore alla traccia successiva da solo.

Grazie a quest’ analisi è possibile, credo, notare i numerosi punti di contatto della traccia con la Sehnsucht e il trascendentalismo. I suoni si fanno portatori ognuno di un elemento chiave nella costruzione di una dimensione rituale in cui la natura celebra la morte dell’individuo, la cui presenza inizialmente dirompente all’interno del cosmo che cerca di possedere (Sehnsucht) è infine venuta meno ma ha lasciato comunque una flebile traccia di sé(trascendentalismo). Ecco la celebrazione della morte dell’uomo. Ecco l’ideale romantico (e successivamente simbolista) del ciclo vita-morte all’interno dell’universo naturale.

Il suono acustico è non a caso molto ricorrente all’interno di The Mantle, scelta questa che potrebbe lasciare perplesso l’ascoltatore che, conoscendo le massicce influenze provenienti dal black metal scandinavo sulla band, si aspetta di udire sonorità glaciali e distorte tipiche del genere.  queste ultime sono infatti molto meno presenti in The Mantle rispetto a lavori successivi della band statunitense, primo fra tutti Marrow of the spirit. Credo però che questo sia uno degli effetti del problema a cui accennavo prima, ovvero la mera considerazione di una classificazione di genere che non tiene conto delle possibilità di contaminazione tra sonorità a fini espressivi, ma unicamente di coordinate e connotati stilistici che si assumono come chiusi, compiuti ed immodificabili. La  scelta del suono acustico è invece facilmente comprensibile se torniamo a considerare il rapporto musica-trascendentalismo/Sehnsucht: è infatti proprio nel suono acustico che viene ricercato un legame ancestrale con la natura. Dal momento che tale sonorità non si avvale dell’ausilio dell’elettricità (espressione, come abbiamo visto, di azione dell’uomo sulla natura) si presta bene a divenire invece espressione di un legame puro con la natura, scevro da violenze verso di essa.

Sulla base di queste riflessioni è possibile comprendere il motivo per cui la traccia finale A Desolation Song, ovvero un’ode alla solitudine e all’abbandono, è interamente costruita con l’ausilio di suoni unicamente acustici e cantata da John Haughm con voce sussurrata mentre la traccia You Were But A Ghost In My Arms, i cui fili conduttori a livello lirico sono il dolore e la disperazione, è scandita da ritmi furiosi, caratterizzata dall’utilizzo massivo del suono distorto e dello screaming più ferale. Eppure entrambe le tracce hanno un punto in comune: la brama di qualcosa che non è raggiungibile ma che risveglia una consapevolezza di sé. Qualcosa di kantianamente Sublime. L’universo sonoro degli Agalloch diviene allora un laboratorio di sperimentazione al servizio di una precisa ideologia che viene incarnata all’interno della struttura musicale.    

Ed è proprio grazie ad una struttura così ricercata che gli Agalloch riescono a trasportare l’ascoltatore nei meandri della propria coscienza , mettendolo di fronte alla maestosità dell’universo naturale di cui egli stesso fa parte.

La mia analisi fino ad ora è vertuta principalmente sul suono ma naturalmente anche l’aspetto lirico ha un ruolo fondamentale nella relazione musica-Sehnsucht all’interno dell’album. La traccia In The Shadow Of Our Pale Companion ad esempio contiene un passo che da solo può sintetizzare l’ideale romantico-trascendentalista di The Mantle (e non credo sia un caso che venga cantato da Haughm con uno stile vocale a metà tra lo screaming ed il sussurro):

“Here at the edge of this world
Here I gaze at a pantheon of oak, a citadel of stone
If this grand panorama before me is what you call God
Then God is not dead”

(“qui all’estremità di questo mondo; qui io osservo un pantheon di querce, una cittadella di pietra; se questo grande scenario davanti a me è ciò che chiami Dio; allora Dio non è morto”)

Ritroviamo qui un’ode alla natura dal sapore panteistico, corroborata da un richiamo al concetto nietzscheano della morte di Dio. La già citata traccia The Hawthorne Passage si chiude invece con un sample del film messicano del 1968 Fando y Lis:

<Lis: Yo moriré y nadie se acordará de mí. Yo moriré y nadie se acordará

de mí. De mí…
Fando: Sí, Lis, yo me acordaré de ti e iré a verte al cementerio con una flor y un perro, y en tu funeral cantaré, en voz baja, “Que bonito es un entierro!”>

(<Lis(cantando): io morirò e nessuno si ricorderà di me. Io morirò e nessuno si ricorderà di me. Di me…

Fando: sì, Lis, io mi ricorderò di te e verrò a trovarti al cimitero con un fiore e un cagnolino e al tuo funerale canterò, a voce bassa, “com’è bello un funerale!”>)

Una nuova celebrazione della morte in cui le sonorità post-rock creano una cornice ipnotica e malinconica. La precarietà dell’essere umano viene messa nuovamente in evidenza attingendo a piene mani anche dall’ universo cinematografico, recuperando elementi che vanno a fondersi con le sonorità post-rock della traccia. Infatti la citazione di Fando y Lis entra sull’eco della distorsione della chitarra di Don Anderson, eco simile a quello finale di A Celebration For The Death of Man… ma più rumoroso, che svanisce bruscamente subito dopo, a metà della battuta di Lis, con uno slide out. Nuovamente la volontà umana viene ridotta ad eco e lascia infine spazio ad un’ode al solenne rito del funerale.

La penultima traccia, …And The Great Cold Death Of The Earth, chiude il ciclo e conclude il rituale panteista iniziato con A Celebration For The Death Of Man… . Dopo l’approdo ad un tellurico accordo di Mi minore la chitarra elettrica scompare e lascia il posto a quella acustica, che riprende la ritmica e il giro di accordi utilizzati nella prima traccia. Qui non vi è più alcuna presenza di timpani e sintetizzatori ma la ritmica è scandita da campane che, seguendo la chitarra e con un brevissimo capolino di suono sintetizzato verso la fine, suonano una fredda melodia che annuncia la conclusione del rituale. Da qui in poi il suono elettrico non farà più la sua comparsa. La traccia conclusiva infatti, come accennato in precedenza, è interamente acustica. Le liriche di …And The Great Cold Death Of The Earth contengono quella che è divenuta la frase simbolo di The Mantle:

“we are the wounds…and the great cold death of the Earth”

(“noi siamo le ferite…e la grande morte fredda della Terra”)

Il processo di mistificazione conduce ad identificare la morte dell’uomo e quella della terra, è qui che infine le due entità di uomo(microcosmo) e natura (macrocosmo) possono incontrarsi soddisfando la Sehnsucht. Il rituale iniziato con una celebrazione della morte dell’uomo si conclude con una celebrazione di quella della natura. Dopo non può esserci più nulla se non il senso di perdizione introdotto dalla conclusiva A Desolation Song:

“Lost in the desolation of love
The passions we reap and sow
Lost in the desolation of life
This path that we walk”

(“perduti nella desolazione dell’amore; le passioni che raccogliamo e seminiamo; perduti nella desolazione della vita; questo sentiero che percorriamo”)

Credo che il rapporto musica-Sehnsucht sia palese in questa strofa. La canzone è interamente cantata in uno stile canoro che ricorda il whispering e suonata esclusivamente con strumenti acustici e tradizionali, tra cui un mandolino. La scelta sonora di nuovo è determinata dall’extra-musicalità, in questo caso la resa della solitudine e dell’abbandono all’interno di uno scenario che non ha più alcun connotato umano ma unicamente cosmico. Un’immersione all’interno dell’essenza stessa dell’abbandono, ovvero il sentimento più puro di Sehnsucht.

The Mantle non è solo un’esperienza di ascolto. È un ciclo, un viaggio in cui ogni capitolo è una tappa, un momento di riflessione, una momentanea fuga dal mondo circostante , in cui la natura accoglie il romantico spirito di un uomo in fuga inglobandolo al proprio interno. Il rapporto con il pensiero romantico-trascendentalista consente allora all’universo sonoro di divenire un teatro di sperimentazione che travalica i confini dei generi, permettendo così al suono di non fermarsi alla semplice imitazione di quel pensiero ma di costituirne, di fatto, prima la rappresentazione e poi la compiuta incarnazione.