La domanda che mi pongo e che vorrei estendere a voi lettori in questo articolo è: quanto l’ambiente di insediamento di una popolazione può incidere sulla cultura della stessa?

L’Uomo ha da sempre uno stretto rapporto con l’ambiente, un rapporto molto più intimo e profondo rispetto al semplice abitarlo o servirsene. Dalla natura attingiamo il fabbisogno nutrizionale, ne ricaviamo il rifugio, ma è anche il luogo dove viviamo in toto tutti i nostri pensieri e sentimenti. La natura è la nostra casa, sia che la trasformiamo artificialmente o meno, è il luogo dove esistiamo; chi è al di fuori dalla natura è in un mondo-altro, ovvero è morto. L’Uomo ha da sempre questa consapevolezza e questa venerazione per la natura che finì presto per essere idealizzata e divinizzata. La natura è anche Madre Natura (colei che dà la vita) ed è abitata da altri dei minori (dio del vento, del tuono, del mare, ecc) che a loro volta ne danno forma e attributi. La natura è madre, bellezza, perfezione, artista, saggia e giusta – racchiude le nostre migliori qualità, le quali vengono esteriorizzate e portate al massimo grado. Così la natura diventa divina, rispettata, temuta ma soprattutto amata.
E’ con questa concezione di fondo, tramandata culturalmente, che anche l’uomo odierno, pur non divinizzandola apertamente, le riconosce uno statuto ontologico proprio. Di fatti la natura è pensata come una cosa che esiste di per sé, ma non è più immortale e potente, è qualcosa da difendere dalle nostre stesse azioni. Ora è l’Uomo che ha il potere di distruggere e di essere più potente di quella stessa natura che gli diede la vita. Il nostro “potere” è l’intelletto e la tecnologia che deriva da esso; una tecnologia però che sembra dispensare morte e terrore, mutando e distruggendo interi ecosistemi. Ma la natura è ancora, sotto sotto, una madre (forse un po’ anziana) ed è considerata come qualcosa da difendere, da tutelare, da fare sopravvivere a noi – figli irriconoscenti.
Ma tutto questo sentimento di onnipotenza, di distacco e superiorità dell’Uomo sulla natura (tranne che per le forze della stessa) ci ha resi ciechi all’intimo rapporto che le nostre società hanno con l’ambiente. Siamo talmente arroganti da pensare che la cultura e le tradizioni siano solo frutto dell’intelletto mentre la natura sia solo il luogo dove farle prosperare. In questo articolo vorrei invece mettere sotto i riflettori l’intimo rapporto tra ambiente e cultura, i quali, secondo il mio parere, sono strettamente collegati.

A fronte di ricerche personali gnoseologiche (la gnoseologia è quella branca della filosofia che si occupa dello studio della conoscenza, ovvero si domanda come e con quali limiti l’Uomo possa conoscere il mondo) ho potuto approfondire l’epistemologia evoluzionistica, la quale, reinterpretando le categorie kantiane, afferma la fondazione delle nostre capacità conoscitive nel processo evolutivo della specie: nell’individuo la capacità è considerata innata, a-priori (tutti nasciamo con la stessa conformazione cerebrale e con le stesse zone preposte per la conoscenza, ad esempio i sensi hanno zone cerebrali specifiche), ma nella specie è considerata a-posteriori quale frutto dell’evoluzione filogenetica (la conformazione cerebrale cambia e si evolve nel tempo). Vorrei però portare questi studi ad un livello superiore, al livello etico; è mia impressione che anche il giudizio morale – ciò che è giusto e ciò che è sbagliato – sia soggetto ad un modello simile di evoluzione e che quindi intercorra uno stretto rapporto tra lo stesso e l’ambiente circostante.
Questa invero non è una scoperta così eclatante, si è registrato per lo più in tutte le specie animali un registro etico che può variare nel corso del tempo – di fatti molti animali sembrano “sapere” cosa sia giusto o meno per loro, o quanto meno vantaggioso, utile, seguendo un dettame morale ben preciso: la conservazione della specie.
Il punto sta quindi nel cercare di comprende come ciò avvenga.
Il tipo di evoluzione di cui sto parlando fu battezzata da Konrad Lorenz (zoologo , etologo e filosofo austriaco nato nel 1903 e morto nel 1989) ritualizzazione filogenetica. Questo tipo di evoluzione del comportamento vuole che alcuni tipi di atteggiamenti – solitamente frutti di relazioni tra due o più istinti – possano essere ripetuti e quindi ritualizzati all’interno della vita di un individuo di una specie per poi essere, solitamente, trasmessi alla prole semmai si rivelassero in qualche modo funzionali o semplicemente difficili da estirpare per via dell’abituazione del comportamento acquisito.
Questi atteggiamenti, continua Lorenz, vengono poi ripetuti per generazioni fino a quando non diventano veri e propri istinti aventi la stessa indipendenza e voce in capitolo in quello che l’etologo definì parlamento degli istinti; non esiste un istinto più forte dell’altro, quello che può far scatenare un istinto è semmai la circostanza, lo stimolo e il tempo trascorso dall’ultima volta che fu effettivamente sfogato.

Cito dal testo “Il cosiddetto male” di Konrad Lorenz:

“…attraverso il processo di ritualizzazione filogenetica, nasce ogni volta un nuovo istinto completamente autonomo, che per principio è indipendente esattamente quanto qualsiasi altra delle cosiddette «grandi» pulsioni – la fame, l’amore, la fuga, l’aggressione -, e che, esattamente come queste, ha seggio e voto nel parlamento degli istinti.”
(p. 90)

Questo modello di evoluzione biologica-comportamentale lo trovo affascinante ma non in perfetto accordo col mio pensiero in quanto non credo sia possibile che un comportamento, per quanto sia effettivamente ripetuto nelle generazioni, entri a far parte improvvisamente, o automaticamente, nel pool genetico di quella specie. Tolto questo aspetto, sono convinto che questo sia l’esatto processo di evoluzione anche della nostra morale; l’idea di fondo è che in base a specifici cambiamenti noi adattiamo il nostro comportamento etico ritualizzandolo culturalmente tramandandolo di generazione in generazione. Questo mi spinge a pensare che l’essere umano sia dotato di due strati morali: il primo è posto al livello biologico e quindi inconscio, istintivo, a-priori, mentre l’altro è costruito sul livello culturale e quindi appreso, insegnato, a -posteriori.

Quello che, oltre questi succitati studi, mi ha spinto a teorizzare queste ipotesi è la presenza di popolazioni che possiedono un’etica completamente diversa da quella che sembra essere la mia e della popolazione a cui sento di appartenere (almeno a livello geografico). Ma di quale etica sto parlando? Mi riferisco, in questo caso specifico, a quella nei confronti della morte. E’ giusto rispettare il morto? E come bisogna farlo? Queste due domande non sono casuali perché possiedono due risposte che corrispondo, secondo me, a strati diversi della morale. Sembra sia sentimento comune di tutta la specie umana turbarsi dinnanzi alla morte – porsi delle domande e rispettarla rispettando il morto. Mentre invece sul come debba essere rispettato possiamo trovare usanze diverse. Ma perché il come presenta così tante sfumature e differenze anche molto sostanziali a livello etico culturale? A cosa è dovuto? La mia risposta è immediata: all’ambiente. Ambienti diversi hanno evidenziato problematiche diverse e quindi diverse soluzioni. Il rispettare col funerale la morte di un compagno della propria comunità, o non, è funzionale innanzitutto all’igiene e alla salute – un cadavere lasciato esposto intorno all’insediamento può portare malasanità e mettere a repentaglio la vita degli altri individui. Onde evitare ciò la maggior parte delle popolazioni si trova in accordo con l’usanza di seppellire i propri morti, ma non tutti gli insediamenti umani hanno il beneficio di abitare in ambienti favorevoli al seppellimento. Ecco che allora determinate popolazioni usano fare funerali diversi che, per quanto a noi possano sembrare bizzarri o immorali, per loro sono perfettamente etici.
– Di seguito porterò l’esempio di un tipo di funerale che mi ha colpito molto, invito chi è forte di stomaco a ricercare personalmente qualche video, ne esistono di diversi.

Il servizio funebre in questione si chiama Funerale celeste ed è effettuato soprattutto in Tibet.
La cerimonia prevede che il maestro buddhista scuoi, con un’ascia, il corpo del morto all’aria aperta, mentre il fumo del ginepro e l’odore della carne attira gli avvoltoi. Questi ultimi sono considerati come le manifestazioni delle dakini, le quali sono come i nostri corrispettivi angeli. Vere e proprie creature mitologiche che uniscono con la loro presenza il mondo fisico da quello metafisico, e per tanto venerati, gli avvoltoi hanno il compito, una volta invitati, di cibarsi del cadavere del defunto che, con questo ultimo gesto, ripaga i suoi debiti karmici. Infatti donare il proprio corpo è un grande atto di generosità che crea un legame profondo con la natura e il ciclo della vita. Inoltre per il buddhista il corpo non è altro che l’involucro dello spirito, pertanto la sua conservazione non avrebbe scopo alcuno. Al fine quindi di smaltire le spoglie integralmente, il maestro di cui sopra si occuperà, finita la prima parte del pasto degli avvoltoi, di frantumare le ossa e il cervello con un martello di pietra mescolandoli con della farina d’orzo in modo tale che gli uccelli saprofagi, una volta richiamati, possano cibarsi anche degli ultimi resti.
Sottolineo infine che questo rito può essere svolto sia che per un singolo morto che per un intero gruppo e che, il tutto, è accompagnato da parenti e amici che assistono, e da canti di preghiera.

Per quanto possa effettivamente sembrare strano questo funerale è perfettamente ecologico. Di fatti il Tibet ha un terreno prevalentemente roccioso e ghiacciato e questo rende difficile la pratica della sepoltura. Inoltre, trovandosi in prevalenza sopra la linea degli alberi, è anche difficile ricavare della legna per poter praticare la cremazione. Quindi, tutto sommato, è facilmente comprensibile come nella loro popolazione si sia sviluppato e ritualizzato culturalmente, in relazione al loro ambiente, un sentimento etico differente dal nostro per quanto riguarda il rapporto con il morto.

La mia conclusione è quella di aver, spero, portato alla luce lo stretto rapporto che intercorre fra cultura e ambiente passando per la ritualizzazione culturale dell’etica nella specie umana. Nelle varie popolazioni, quindi, varia il sentimento morale in relazione all’ambiente di insediamento, e quindi, di conseguenza, varia anche la cultura – dato che quest’ultima è fortemente collegata a ciò che la comunità ritiene sia giusto o meno. Quindi ambienti diversi danno popolazioni con culture profondamente differenti, ma questo, ovviamente, non significa che l’etica e la cultura di una società si evolva solo in rapporto al proprio ambiente, ma credo che sia utile tenere il luogo di insediamento molto più in considerazione di quanto non sia stato fatto finora.

Nella seconda parte di questo articolo tratterò di un altro esempio culturale per tentare di spiegare come determinate scelte etiche e culturali possano indirizzare l’evoluzione biologica-comportamentale di una determinata popolazione.