Nel 2016 esce È solo la fine del mondo di Xavier Dolan, regista ad oggi ventinovenne che ha già all’attivo sei lungometraggi e alcuni videoclip di successo: una promessa del cinema già in parte confermata. Il film è stato infatti scritto, montato, prodotto e diretto in modo molto personale da Dolan stesso, che si è occupato anche dei costumi e che in molti dei suoi altri film ha anche recitato. Un autore a tutto tondo che non ha mancato di farsi notare vincendo diversi premi a importanti festival internazionali, e certamente non mancherà di continuare a farlo in futuro.
Dopo questa dovuta (per quanto scarna) presentazione di un autore sconosciuto ai più, occorre effettuare un ulteriore introduzione, che dal futuro ci riporta al passato, addirittura alle origini dell’arte cinematografica. Dobbiamo infatti tornare al cinema delle origini, quella forma di cinema più vicina alla fotografia in movimento che non al cinema a cui oggi siamo abituati, tradizionalmente fatto sdoganare da Griffith, che ha in realtà messo insieme molte delle tecniche che già esistevano mettendole però al servizio non della spettacolarizzazione, bensì della narrazione. Ma facciamo un passo per volta. Inizialmente ciò che contava nel cinema delle origini era solo la categoria che studiosi come Tom Gunning definiscono ‘attrazione‘. Un film era di solito composto da una singola veduta (che si distingue dalla moderna inquadratura) o, più avanti, da più vedute giustapposte (e non connesse secondo le ora consolidate regole del montaggio che favoriscono la continuità), valeva in quanto capace di impressionare gli spettatori, di solito di estrazione popolare, in cerca di qualcosa che al tempo era percepito come grandioso nella sua portata innovativa e tecnologica, ovvero l’immagine in movimento, quanto più spettacolare possibile. Ecco allora che quando gli autori della cosiddetta Scuola di Brighton iniziano ad utilizzare i piani ravvicinati non lo fanno per altra ragione che per mostrare immagini spettacolari, per ingigantire degli oggetti più o meno piccoli proiettandoli sul grande schermo. Non c’è alcun intento narrativo, né tantomeno introspettivo. Quando però il cinema tenta di fare il salto economico, nei primi anni Dieci, è necessario rivolgersi al pubblico borghese, poco interessato a questo tipo di intrattenimento. Per ottenere l’interesse del nuovo pubblico c’è bisogno di un nuovo oggetto, ad esso già noto mediante la nobile arte letteraria: la narrazione. E per rendere il cinema narrativo c’è bisogno di mettere a punto un nuovo linguaggio. Ecco che quindi, quando autori come Griffith recuperano i piani ravvicinati dai produttori di vedute degli anni precedenti, non lo fanno più per impressionare il pubblico popolare, ma per accompagnare il pubblico borghese in un ‘viaggio immobile’ squisitamente narrativo. Il piano ravvicinato diventa lo strumento per focalizzare dettagli importanti a livello narrativo, ma anche per entrare nella psicologia dei personaggi. Col tempo quest’ultima caratteristica si afferma sempre di più, e i piani ravvicinati si fanno carico dell’emotività dei personaggi all’interno di un mondo narrativo via via più complesso. Il cinema narrativo diventa ‘cinema istituzionale’, canonizzato più avanti dalla Hollywood classica, e impostosi come modello dominante della produzione cinematografica fino ad oggi.
Se inizialmente i piani ravvicinati non erano mai utilizzati, e non c’era alcuna volontà di entrare nella mente di un personaggio e portare innanzi allo spettatore tutta l’espressività di un attore, è perché il cinema non aveva tra i suoi obiettivi quello di fare qualcosa di diverso dall’impressionare esibendo ‘attrazioni’. Agli antipodi del cinema delle origini troviamo, nel 2016, un film realizzato da un ventisettenne regista canadese intitolato, appunto, È solo la fine del mondo. La particolarità del film, a livello registico, è infatti quella di essere composto quasi esclusivamente di piani ravvicinati. Provate a far partire il film in una serie di punti a caso e avrete scarse possibilità di ritrovarvi davanti ad un’inquadratura meno ravvicinata del primo piano. Lo spazio è completamente decomposto, frammentato in una serie di ‘piccole’ inquadrature che inizialmente danno un effetto molto spaesante, a maggior ragione dal momento che una delle prime scene del film vede i personaggi principali (che sono ben più di due) confrontarsi in un dialogo collettivo montato in maniera serrata e fatto solamente di primi piani sui volti dei protagonisti coinvolti.
Naturalmente Dolan non è il primo regista ad aver messo grande enfasi sui piani ravvicinati, e non è nemmeno la cifra stabile del suo cinema, dal momento che un film come Mommy non si concentra particolarmente su tale aspetto registico, puntando più ad esempio sullo sfruttamento delle possibilità compositive offerte dall’insolito aspect ratio 1:1. Ciò che è singolare è però che un intero film di quasi 100 minuti sia realizzato ricorrendo quasi unicamente a questo tipo di piano. Una ragione plausibile sta proprio nell’essenza stessa del piano ravvicinato, che come abbiamo visto è stato utilizzato nel cinema istituzionale per ragioni ben precise. Per capire in che senso questo può essere vero dobbiamo aggiungere qualche informazione sul tema di È solo la fine del mondo. Il film parla infatti di un giovane uomo che decide di tornare a visitare la sua famiglia dopo un lungo periodo di assenza per informarli della propria malattia terminale e passare con loro quelli che spera possano essere gli ultimi giorni felici della sua vita. Giunto a casa, tuttavia, si rende conto che poco è cambiato da quando aveva deciso di allontanarsi, e puntualmente rimanda la propria volontà di esporre la questione della malattia ai familiari. Tutto il film è fatto di sottili inflessioni emotive che ci fanno credere che l’uomo sia prossimo a rivelare ad almeno uno dei suoi cari della sua malattia, ma non ne trova mai la forza. Gli stessi membri della famiglia portano con sé il proprio vissuto travagliato e i propri rapporti ambivalenti tra loro e col protagonista stesso, la cui scelta di andarsene di casa è stata accolta nei modi più variegati all’interno della famiglia composta dalla madre, dalla sorella, dal fratello e dalla cognata.
Ecco allora che risulta chiaro come agli antipodi di un cinema fondato sulle attrazioni e lontano dalla narrazione e dall’introspezione, totalmente privo di piani ravvicinati, si possa situare più di qualunque altro film un’opera fatta quasi unicamente di piani ravvicinati, utilizzati non a caso, ma per introdurci nell’intima atmosfera della casa del protagonista e della sua famiglia, nelle sottili e fragili interazioni tra i personaggi, nelle sfumature della loro emotività, palpabile grazie alla sottolineatura di ogni singola increspatura del volto, resa possibile proprio dai piani ravvicinati (e dal grande cast attoriale composto da Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard e Léa Seydoux). E se il cinema delle attrazioni, dell’esaltazione tecnologica e dell’ingigantimento, è parte del passato, il cinema del giovane canadese – fatto di profonda introspezione e di minimali increspature che sono amplificate dai piani ravvicinati divenendo tsunami emotivi – è il futuro.