Poniamo il caso di trovarci di fronte a un testo composto da una serie di parole e gruppi di parole disposti in colonna lungo una pagina. Di questo testo non conosciamo nulla: né l’autore, né la data in cui è stato scritto, né il motivo per cui è stato scritto. Ci viene chiesto, però, di considerarlo come testo poetico e di analizzarlo. Facciamo dunque appello alle nostre molte o poche conoscenze in ambito di poesia: ripensiamo ai sonetti stilnovisti, alle divisioni in sillabe per individuare eventuali endecasillabi, osserviamo la parte finale delle parole che si trovano in fondo al supposto verso per riconoscere eventualmente un sistema rimico ecc. Non ritroviamo nulla di tutto questo. Allora pensiamo – se già non lo abbiamo sospettato a una prima lettura rapida del testo – che sia un testo sperimentale di un autore a noi sconosciuto, magari della seconda metà del Novecento. A questo punto, rileggiamo nuovamente le parole e cerchiamo di dare loro un significato azzardando interpretazioni di vario tipo, sempre a partire dal nostro bagaglio culturale personale.
Questo è, con qualche variante, il riassunto di un esperimento condotto in aula dal professore e critico letterario statunitense Stanley Fish, raccontato in uno dei saggi compresi nel suo libro Is There a Text in This Class?[1]. La richiesta che Fish fa ai suoi studenti di Letteratura religiosa inglese del diciassettesimo secolo è la seguente: dare un’interpretazione di un elenco di parole scritte in colonna sulla lavagna, dicendo loro che si tratta di uno dei testi poetici che rientrano nel loro ambito di competenza. In realtà, Fish aveva scritto sulla lavagna un breve elenco di nomi di linguisti (che nulla avevano a che fare con le poesie religiose del diciassettesimo secolo), disposti in ordine del tutto casuale, con l’unico scopo di assegnare un compito a un altro gruppo di studenti appartenente a un corso diverso che nell’ora precedente aveva occupato la stessa aula. Il secondo gruppo di alunni, tuttavia, è stato in grado di fornire delle interpretazioni inaspettatamente “geniali” attingendo al proprio bagaglio culturale di studenti di Letteratura religiosa inglese del diciassettesimo secolo. Fish è così giunto alla conclusione che presentando una serie di parole come testo poetico di fronte a un gruppo culturalmente connotato di persone, il testo che nelle intenzioni di chi lo ha scritto non era affatto considerato poetico, viene invece interpretato come tale, con tanto di argomentazioni tecniche derivate appunto dal background culturale degli interpretanti.
Di quanto detto finora, possiamo evidenziare due punti fondamentali: innanzitutto la conclusione a cui è giunto Fish che ci ha permesso di focalizzare la nostra attenzione non soltanto sull’importanza che la nostra formazione ha nel decodificare ciò che abbiamo davanti (sia esso un testo, un disegno, un film o altro ancora), ma soprattutto sulla questione dell’intenzione. Quest’ultima, infatti, ci conduce direttamente al secondo punto, nonché fulcro della nostra riflessione: Fish è partito, nel suo esperimento, da una affermazione falsa. Ha cioè fatto credere ai suoi studenti che ciò che aveva scritto sulla lavagna fosse una poesia, mentre – come abbiamo già osservato – le sue intenzioni nello scrivere i nomi dei linguisti erano ben altre rispetto a quelle di comporre un testo poetico. Eppure i suoi studenti hanno analizzato l’elenco di nomi come se fossero versi di una poesia. La premessa da cui siamo partiti è dunque fondamentale perché ci suggerisce, in ultima istanza, una domanda: come possiamo distinguere in maniera oggettiva cosa è poesia da cosa non lo è? Bastano le nozioni di verso, rima, strofa per distinguere un elenco di nomi di persone (o, perché no?, un elenco della spesa) da una serie di versi? Secondo quanto abbiamo detto finora la risposta non sembra essere così immediata. Il saggio di Fish da cui abbiamo tratto l’aneddoto si intitola How To Recognize a Poem When You See One[2], ossia “come riconoscere una poesia quando ne vedi una”. In realtà Fish non risponde direttamente alla domanda e si limita a sottolineare come una poesia è davvero tale solo nel momento in cui si palesa qualcuno che la interpreti, e quel qualcuno – avendo di volta in volta una diversa formazione alle proprie spalle – potrebbe interpretarla di volta in volta in maniera diversa, a seconda dell’epoca e della cultura in cui si colloca. Dunque ci troviamo di fronte al libero arbitrio più totale? Non sembrerebbe: Fish, infatti, si sofferma a evidenziare proprio l’importanza e l’imprescindibilità del ruolo che la cultura svolge nell’individuo interpretante. Egli, secondo lo studioso, non ha davvero a propria disposizione un infinito numero di interpretazioni possibili, ma solo quelle determinate dalla comunità culturale da cui è influenzato. Ma allora, potremmo incalzare noi, tutto dipende dall’interprete? Cosa ne è degli strumenti che ci vengono forniti dai nostri studi? E soprattutto, cosa ne è dello scrivente? Ecco che ritorna la nozione di intenzione di cui sopra. Se non basta conoscere la metrica per distinguere una poesia da un mero elenco di parole né basta l’attività del lettore-interprete con il suo (finito) spettro di interpretazioni possibili, è necessario anche che chi scrive il testo abbia l’intenzione di produrre un testo poetico. Esiste, quindi, un modo oggettivo per definire la letteratura? Probabilmente no, altrimenti non si verificherebbero casi in cui un testo non intenzionalmente poetico venga interpretato come poetico o viceversa. Forse è necessario dare spazio contemporaneamente sia alle proprie conoscenze, sia alle interpretazioni diverse dalle nostre, sia all’intenzione dello scrivente ed essere disposti ad accettare che ciò che in un contesto viene considerato letteratura, in un altro contesto potrebbe non esserlo, al di là degli strumenti teorici che abbiamo a disposizione per analizzarlo.
[1] S. Fish, Is There a Text in This Class?, Cambridge, Harvard University Press, 1980.
[2] S. Fish, How To Recognize a Poem When You See One, in ID. Is There a Text in This Class?, Cambridge, Harvard University Press, 1980, pp. 322-337.