Il linguaggio è senza dubbio uno degli aspetti più interessanti e ricchi dello scibile umano. Mezzo primario di comunicazione, esso ha caratterizzato l’uomo fin dalle sue origini. Di tutti i codici esistenti, il linguaggio è sicuramente quello più utilizzato e studiato. Non è quindi sicuramente un caso che all’interno dell’indagine filosofica tutto ciò che ha riguardato il linguaggio abbia goduto di una considerazione di primo piano, dai presocratici fino ai giorni nostri (in cui la filosofia del linguaggio è divenuta forse l’area di ricerca più prolifica all’interno degli studi filosofici d’accademia). Non sorprende dunque che l’indagine mirata a svelare i meccanismi di produzione del linguaggio si sia spinta (e si stia spingendo) sempre più oltre i limiti, nel tentativo di determinare le origini di una peculiarità umana che consente tanto la comunicazione quanto la possibilità di circoscrivere l’universo che ci circonda all’interno di un codice condiviso. Negli ultimi dieci anni la scoperta che ha interessato maggiormente la filosofia del linguaggio, la linguistica e l’antropologia è stata senza dubbio quella del popolo pirahã e della sua lingua. Un linguaggio affascinante e misterioso, parlato da una popolazione amazzonica di appena 800 individui e che, per alcuni, sarebbe unico al mondo. In questa serie di articoli vorrei indagare le caratteristiche principali di questa lingua e i motivi per i quali la scoperta del pirahã ha interessato una pluralità di discipline, in primo luogo quelle che si occupano di studiare il linguaggio. In questa prima introduzione vorrei concentrarmi su quello che, prima dell’”avvento” del pirahã, era il paradigma dominante e su una caratteristica particolare di questa lingua.

Ogni linguaggio, secondo un’opinione condivisa, dovrebbe essere in grado di dare denominazioni ad ogni concetto in modo da poterlo codificare e quindi comunicare a chi possiede la conoscenza di quel codice. Per fare questo, ogni linguaggio dovrebbe avere in comune determinate proprietà, tra cui quella di essere un sistema generativo/produttivo. Cosa significa quest’ultima affermazione? Significa che ogni linguaggio, per poter garantire la possibilità di identificare un concetto, deve possedere alcune strutture che siano utilizzabili e replicabili ogni volta che si intenda identificare tale concetto. Mi rendo conto che una definizione del genere può risultare piuttosto sottile, credo pertanto che l’idea apparirà più chiara se si considererà la frase seguente:

  • “guarda! Là c’è un rinoceronte volante a puntini verdi!”

È assai improbabile che il lettore abbia mai sentito o letto una frase del genere nel corso della sua vita. Eppure, un parlante di lingua italiana percepisce questa frase come assolutamente grammaticale e riesce perfettamente a formarsi il concetto di un rinoceronte a puntini verdi che vola. In altre parole, la struttura della frase veicola la possibilità di formarsi mentalmente il contenuto espresso dalla frase. Noam Chomsky, uno dei più grandi linguisti che la storia abbia mai avuto, sostiene che ogni linguaggio umano avrebbe questa possibilità e definisce “grammatica universale” il complesso di proprietà condiviso da tutti i linguaggi umani esistenti. Una delle proprietà chiave della teoria della grammatica universale è la ricorsività, vale a dire la possibilità che avrebbe ogni linguaggio di applicare una stessa regola un numero indefinito di volte per creare sintagmi (cioè gruppi di parole) e proposizioni che risultano sempre percepite come grammaticali da chi conosce quel linguaggio, come avviene negli esempi seguenti (l’esempio 2 è un sintagma, il 3 una proposizione):

  • Il figlio del figlio del figlio del padre di Giovanni
  • Italo ha detto che Federico ha detto che Alice ha detto che il cappuccino era buono

Non c’è limite alla lunghezza che una frase può avere nel momento in cui si applica a ripetizione una medesima regola, ma la frase verrà sempre ritenuta di senso compiuto. In questo senso il linguaggio sarebbe un sistema generativo/produttivo, perché è in grado di generare e produrre nuove frasi a partire da un certo numero di regole applicabili a ripetizione per un numero indefinito di volte. Inoltre, il fatto che ogni parlante riesca a percepire come grammaticale una frase che contiene parole sconosciute ma poste in un determinato ordine sintattico (come nel primo esempio che abbiamo visto) ha avvalorato l’ipotesi che il linguaggio sia una facoltà innata, facente parte del corredo genetico dell’uomo. Generalmente ci si riferisce a questa teoria con la denominazione di “innatismo linguistico” e Chomsky ne è un assiduo sostenitore.

Il linguaggio, secondo Chomsky, pre-esisterebbe al contesto in cui l’individuo si trova a condurre la propria vita perché egli è in grado di formare sistemi sintattici a prescindere dalla propria esperienza individuale. Questa capacità sarebbe condivisa da tutti i parlanti di tutte le lingue esistenti al mondo, dalle più complesse alle meno articolate. Il complesso di queste considerazioni chomskiane costituisce la più importante teoria linguistica dell’ultimo secolo ed ha monopolizzato il campo di ricerca costituendo di fatto uno strumento di base per chiunque si accingesse a compiere indagini all’interno di questo campo. Questo finché, all’inizio degli anni ’80, un giovane linguista americano non lo mise in discussione. Il suo nome era Daniel Leonard Everett. Intorno agli anni ’70 egli si recò come missionario in Brasile, lungo il fiume Maici, diramazione del Rio delle Amazzoni. Il motivo per cui decise di compiere tale viaggio era il suo desiderio di convertire alla religione cristiana il popolo che viveva (e tuttora vive) in quell’area geografica: i pirahã. Segnalo, prima di proseguire, che questo è il nome con cui noi occidentali denominiamo sia il popolo in questione che la sua lingua, ma non è una parola che appartiene al linguaggio pirahã. I pirahã chiamano infatti loro stessi e la loro lingua “Híaíitihi” (“quelli sulla retta via”) mentre ogni altro linguaggio e ogni altra popolazione sono da loro definiti “xapagáiso (“testa storta”). Il progetto iniziale di Everett era quello di imparare il linguaggio pirahã per tradurre la Bibbia. Egli però rimase a tal punto colpito dalle proprietà della lingua pirahã che decise di studiarla in maniera più approfondita. Everett visse a contatto coi pirahã per diversi anni, apprendendone oltre alla lingua anche la cultura e le abitudini. Rimanendo a contatto con la popolazione autoctona Everett sviluppò infine riflessioni che lo portarono ad abbandonare il proprio progetto di evangelizzazione, perdere la fede e divenire ateo.

Ciò che però interessa a noi in questa sede sono le considerazioni che il linguista americano effettuò una volta appreso e studiato il linguaggio pirahã; egli ritiene infatti tuttora che la teoria della grammatica universale incontri dei limiti proprio alla luce di questo linguaggio, dal momento che quest’ultimo, pur essendo un linguaggio umano, non avrebbe alcune proprietà che invece si incontrano in ogni altro linguaggio umano conosciuto. Quali sarebbero queste mancanze? Il pirahã sarebbe un linguaggio senza termini per indicare i numeri, senza termini per indicare i colori, con un inventario di pronomi estremamente limitato (essenzialmente solo 3: “io” “tu” “egli”) e, soprattutto, privo di ricorsività. Questa sarebbe a tutti gli effetti una prova a contrario alla grammatica universale. Everett si scaglia anche contro l’innatismo, affermando che il linguaggio pirahã, lungi dall’essere innato, è il riflesso della cultura del popolo che lo parla. Per lui quindi il linguaggio non sarebbe affatto pre-esistente nell’uomo ma vincolato da fattori extra-genetici come la cultura e il contesto in cui l’individuo si trova a vivere ed operare.

Nell’anno 2005 Everett pubblicò un articolo sul periodico Current Anthropology dal titolo “Cultural Constraints on Grammar and Cognition in Pirahã” nel quale esponeva le sue tesi corredandole con numerosi esempi tratti dal pirahã. Da allora il dibattito tra i sostenitori delle teorie di Chomsky e i sostenitori di quelle di Everett non si è mai estinto ed è più attivo che mai; il pirahã è divenuto il linguaggio “anti-chomskiano” per antonomasia. La posta in gioco è alta: si tratta di stabilire se una teoria che ha giganteggiato per decenni in una disciplina come la linguistica abbia effettivamente il fondamento universale che rivendica e, non di minor conto, se il carattere fondante del linguaggio sia interno, da ricercarsi cioè all’interno del patrimonio genetico umano, o esterno, cioè determinato dall’ambiente in cui il soggetto nasce e si sviluppa. La questione è molto simile a quella sollevata da Benjamin Lee Whorf (1897-1941), linguista americano che ipotizzava che il linguaggio influenzasse e determinasse il pensiero. Comprendere un linguaggio nuovo, secondo Whorf, equivarrebbe a pensare in un modo nuovo. La tesi di Everett risulta invece diametralmente opposta, in quanto egli ritiene che sia invece il modo di pensare ad essere riflesso nel linguaggio, vincolando quest’ultimo a non poter eccedere i confini delle caratteristiche antropologico-culturali dei parlanti. Per Everett il linguaggio è una determinazione del pensiero, non viceversa.

Dopo aver presentato la questione da un punto di vista generale, vorrei ora concentrarmi su un caso particolare esaminato da Everett (e, come vedremo in seguito, anche dai suoi critici) che costituisce in assoluto la caratteristica più conosciuta e citata della lingua pirahã: l’assenza di numeri e quantificatori. Il pirahã non avrebbe parole che indichino numeri e quantità precise. Le uniche quattro parole che esprimono una quantità sono:

  • hói                                   hoí                             báagiso/xaaíbáai   

piccola quantità            quantità più grande                      molti

La quantità espressa è sempre approssimativa. La parola hói non significa “uno”, vale a dire un numero ben preciso, ma soltanto che la quantità considerata è piccola. Una frase come “ti hói giopaíxi oogabagaí” potrebbe venire tradotta come “voglio un cane” ma in realtà significa “voglio una piccola quantità di cane”. La parola hoí risulta invece ambigua, dal momento che non specifica in che misura la quantità considerata sia “più grande”. Si consideri la frase seguente in pirahã e la glossa della stessa in italiano:

  •    ti       ítíiisi                   hoí                        hii          oogabagaí   

io     pesce       quantità più grande    predicato      volere

Una frase del genere potrebbe venire tradotta sia come “voglio alcuni pesci” sia come “voglio un pesce più grosso”. La quantità rimane comunque imprecisata.

Nel linguaggio pirahã non esistono parole che indichino numeri ordinali come “primo” o “secondo”. Tuttavia, una funzione analoga è assolta dalle parole che indicano le parti del corpo. La parola “testa” ad esempio, essendo la prima parte del corpo, è utilizzata come “sostituto” del numero ordinale “primo”, come avviene nella frase seguente (avendo avuto modo di studiare il piraha, mi permetto di uscire dal significato letterale della frase per considerare quello effettivamente recepito dai parlanti. Il verbo “cadere” in pirahã indica infatti anche il nascere):

  • ti         apaí          káobíi 

io         testa          cadere

“sono nato per primo”

Allo stesso modo non esistono parole che esprimano quantità come “tutti” “ciascuno” “la maggior parte” ecc.

Per quale motivo il pirahã non possiede termini che indichino numeri e quantità precise? La risposta di Everett è cruciale per comprendere la sua teoria: i pirahã valutano empiricamente ogni cosa. Se un particolare concetto non è immediatamente esperibile allora non esiste alcun termine che lo indichi perché, semplicemente, questo è ritenuto dai parlanti superfluo e inutile. Di conseguenza non vi è alcun bisogno di indicarlo. Everett denomina questo principio “principio dell’esperienza immediata”. Secondo il linguista, il numero non costituisce un’esperienza immediata. Nella quantificazione di un elevato numero di oggetti infatti si porrebbe l’attenzione su qualcosa che va oltre l’esperienza immediata ed implica un maggior impegno matematico.

I pirahã effettivamente non sembrano manifestare la capacità di contare ed eseguire semplici operazioni matematiche. Everett, in un passo di “Cultural Constraints on Grammar and Cognition in Pirahã”, descrive così il suo tentativo di insegnare ai suoi ospitanti i principi basilari dell’aritmetica:

Ogni sera per otto mesi io e mia moglie provammo ad insegnare a uomini e donne pirahã a contare fino a dieci in portoghese. Loro [i pirahã] ci dissero che volevano impararlo perché non capivano il commercio non basato sul baratto e volevano essere in grado di capire se erano stati imbrogliati. Dopo otto mesi di sforzi quotidiani conclusero che non potevano impararlo e le classi furono abbandonate. Nessuno imparò a contare fino a dieci e nessuno imparò a sommare 3+1 e nemmeno 1+1.

Da questo si può dedurre, come Whorf vorrebbe, che dal momento che i pirahã non hanno termini per indicare numeri e non riescono a compiere semplici operazioni matematiche allora non riconoscano la differenza tra quantità numericamente differenti? Non esattamente. Dobbiamo infatti distinguere tra concetto di numero e categoria di numero. Secondo Randy Gallistel e Rochel Gelman, due psicologi americani, possedere la categoria di numero significa comprendere le occorrenze numeriche equivalenti di oggetti differenti. Quindi, ad esempio, comprendere che due cani, due case, due bicchieri e due persone sono tutte occorrenze del numero due. Possedere il concetto di numero significa invece essere in grado di mettere in relazione un numero con altri numeri. Comprendere che 1+1=2, 3-1=2 e 2:1=2 significa quindi avere il concetto di numero.

Dal racconto di Everett si evince che i pirahã non possiedono il concetto di numero. Non sono infatti in grado né di apprendere né tantomeno di applicare principi aritmetici molto semplici come le addizioni. Ma che dire della categoria di numero? Peter Gordon, uno psicologo americano, ha condotto un esperimento per verificare il possesso da parte dei pirahã della categoria di numero. L’esperimento consisteva in questo:

Gordon metteva un certo numero di oggetti (noci o pile AA) su un tavolino e chiedeva poi ad un pirahã di mettere in fila orizzontale un numero di pile AA equivalente a quello da lui sistemato. Il numero degli oggetti messi sul tavolino da Gordon variava da 1 a 10. Alla fine veniva chiesto al pirahã se i due insiemi numerici erano uguali. Il test fu condotto su sette pirahã, con il seguente risultato:

  • Per la quantità di un solo oggetto i pirahã utilizzavano sempre la parola hói (“piccola quantità”) e mettevano sul tavolino una sola pila AA.
  • Per la quantità di due oggetti veniva utilizzata spesso la parola hoí (“quantità più grande”), più raramente le parole báagiso e xaaíbáai (“molti”) e messe sul tavolo 2 pile.
  • Per la quantità di 3 oggetti veniva utilizzata indifferentemente sia la parola hoí che le parole báagiso e xaaíbáai e messe sul tavolo 3 pile.
  • Per le quantità superiori a 3 venivano sempre usate le parole báagiso e xaaíbáai ma sul tavolo venivano poste quantità numeriche di pile molto differenti (ad esempio per 10 noci messe da Gordon i pirahã mettevano 5 pile, per 8 noci il numero di pile variava da 5 a 10)

I pirahã, insomma, sembrerebbero in grado di contare ma lo farebbero in modo impreciso. Possederebbero la categoria di numero ma unicamente per numeri molto piccoli, tendenzialmente fino a 3. Per numeri più grandi sembrerebbero rendersi conto che si tratta di “grandi quantità” ma non sono in grado di indicare precisamente a quale numero questa quantità sia corrispondente.

Il fatto che i pirahã si affidino sempre e comunque al principio dell’esperienza immediata si riflette, per Everett, nel fatto che il loro linguaggio non abbia parole per indicare quantità precise. Non si tratta invece dell’opposto, come vorrebbero le teorie di stampo whorfiano, ovvero il fatto che proprio perché la loro lingua non ha termini per indicare quantità precise i pirahã non contano. Come abbiamo visto dagli esperimenti di Gordon, i pirahã infatti avrebbero la capacità di distinguere quantità diverse sebbene il loro linguaggio non possieda termini per indicarle con precisione.

Da queste considerazioni possiamo notare come i numeri (o meglio, i non-numeri) del pirahã siano stati in grado di stimolare la ricerca di diverse discipline come la filosofia del linguaggio, l’antropologia e la psicologia cognitiva. Attraverso l’indagine tanto filosofica quanto scientifica si è riusciti a confutare un’ipotesi di certo suggestiva e interessante ma priva di fondamento come quella di Whorf. Considerando che Benjamin Lee Whorf, assieme al suo maestro Edward Sapir (l’ipotesi in questione è infatti conosciuta col nome completo di “ipotesi di Sapir-Whorf”), viene universalmente considerato come uno dei linguisti più eminenti, importanti e innovativi del ‘900, non si tratta certo di un risultato da poco. Appare di certo estremamente singolare che un linguaggio di soli undici fonemi (l’italiano ne conta trentadue e l’inglese quarantuno) riesca a far vacillare le tesi di alcuni dei più grandi linguisti della storia. Effettivamente non sono certo mancate le critiche alle conclusioni di Everett e, nella prossima puntata, ne presenterò alcune proprio in relazione all’assenza di numeri in pirahã. Ritengo che sia tuttavia innegabile che le potenzialità di questo linguaggio nella risoluzione di aporie come quella di Sapir-Whorf e nella revisione di teorie molto complesse come la grammatica universale e l’innatismo linguistico, se opportunamente considerate e analizzate, restino senza eguali.

A dimostrazione della ricchezza di questo linguaggio, invito infine a guardare e ascoltare il seguente video, che mostra un’anziana donna pirahã mentre intrattiene un bambino mormorandogli nelle orecchie una sorta di filastrocca, che però non contiene pressoché alcuna parola. L’unica parola comprensibile pronunciata dalla donna all’inizio è tiobáhai e significa “bambino”. Questa straordinaria lingua infatti, oltre che parlata, può essere mormorata e fischiata.