Quanno se scherza, bisogna esse seri!

Alberto Sordi, Il Marchese del Grillo (1981)

Che gli esseri umani giochino è un dato di fatto. Qualunque sia l’età, la condizione, la cultura di appartenenza o il contesto, il gioco è una dimensione fondamentale della vita umana. L’attività ludica ricopre infatti un ruolo importante nella nostra crescita, è un valido modo di intrattenere dei rapporti interpersonali e un settore fondamentale della nostra economia. È inoltre una dimensione estremamente variegata, con innumerevoli strati di complessità e raffinatezza, che pone non pochi problemi filosofici. In questo articolo, vorremmo gettare uno sguardo più approfondito su questa dimensione e sulle sue particolarità, alla luce della riflessione svolta dall’esistenzialismo francese di Jean-Paul Sartre. Sembrerà strano ma da questo articolo saranno quasi totalmente esclusi i bambini, che invece dovrebbero essere i protagonisti di una discussione sui giochi: questo perché l’articolo si incentra sui legami tra la dimensione ludica e la dimensione esistenziale della vita reale, di cui i bambini più piccoli non hanno (purtroppo o per fortuna) abbastanza esperienza.

Il gioco per imparare

Punto di partenza sono i motivi e le ragioni del gioco: se ci chiediamo “perché si gioca”, come possiamo risponderci? Adottando il paradigma scientifico tradizionale, che, quando si tratta di comportamenti umani e animali, chiama in causa la teoria evoluzionistica, dovremmo rispondere che giocare è utile alla sopravvivenza. Il gioco è una forma di “allenamento alla vita” in un ambiente controllato: il gioco è infatti una attività svolta prevalentemente dai cuccioli, i quali devono imparare tutto il necessario per vivere senza rischiare di farsi (troppo) male. Si gioca allora alla lotta per imparare ad attaccare e difendersi, si mettono in scena agguati per imparare a cacciare, si gioca a nascondino per imparare a nascondersi dai pericoli, e così via. Da questo punto di vista il gioco è allora una attività finalizzata all’apprendimento di pratiche, comportamenti e strategie utili, da applicare nella vita reale per facilitare la sopravvivenza dell’individuo.

Il gioco come forma di addestramento non è limitato al livello basilare che contraddistingue il gioco tra gli animali ma, nel caso umano, è ampliato fino a comprendere lo sviluppo di aree di competenza tecnica molto specifiche o delle abilità cognitive o della persona intera. Pensiamo, ad esempio, ai piloti d’aereo che vengono addestrati tramite simulatori di volo prima di consegnare loro i comandi di un velivolo; oppure a quei giochi, comunemente detti “da tavolo” che sviluppano le facoltà intellettive, logiche, di ragionamento strategico o di calcolo delle probabilità: basti pensare agli scacchi, ai giochi di carte, al Risiko, al Monopoli, etc… Oppure ancora, in un senso più ampio di apprendimento, i giochi a componente aleatoria, dove il caso determina il successo o l’insuccesso, addestrano a “sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’oltraggiosa fortuna”, per dirla con Shakespeare. In altre parole, insegnano al bambino che esiste la possibilità di “perdere” senza che ci si possa fare qualcosa, che esistono dei modi per evitare che la perdita sia troppo costosa e che ci si potrà rifare in una partita successiva. L’attività ludica fornisce quindi un know-how indispensabile per la vita adulta e dunque ha una funzione fondamentale sotto la prospettiva evoluzionistica: i cuccioli che non giocano potrebbero trovarsi impreparati una volta adulti e soccombere.

Questa prospettiva però lascia un dubbio: per quale motivo il gioco è così diffuso anche tra gli adulti? Se si tratta di una forma di addestramento in vista della vita adulta, che motivo ci sarebbe per insistere con questa attività? Bisognerà abbandonare la prospettiva evoluzionistica per rivolgersi ad un altro motivo che ci spinge a giocare, il quale non esclude però la funzione evolutiva. Prima sarà necessario sottolineare una caratteristica della dimensione ludica che è emersa da questa prima analisi. Il gioco è separato dalla vita reale e costituisce una dimensione differente, seppure interna alla vita stessa: un confine ben definito circoscrive quello che è lo spazio e il tempo del gioco e lo tiene separato dalle pratiche, dai problemi e dai comportamenti della vita reale. Inoltre, il gioco implica sempre una finzione.

Il gioco per divertirsi

Abbandonando la prospettiva darwiniana in cui ci siamo costretti, la risposta alla domanda “perché si gioca” diventa ovvia: chi gioca, lo fa per divertimento, per stare bene e distrarsi da problematiche. La parola “divertire” deriva dal latino divertere, che significa “volgere altrove”: il gioco serve quindi a distrarre chi gioca da qualcosa e, per questo, a rallegrarlo. Se vogliamo capire da cosa ci distrae il gioco, possiamo richiamarci a quella prima caratteristica che abbiamo evidenziato poco sopra, ovvero la separazione della dimensione ludica da quella della vita reale. Il gioco serve infatti a distrarci da quest’ultima dimensione, dai suoi problemi e dalle avversità che la contraddistinguono, e a darci per un periodo di tempo limitato uno spazio in cui fare altro, senza preoccupazioni.

Non ritengo che ci sia bisogno di argomentare quanto sopra detto, in quanto è chiaro ed evidente. Vorrei allora che ci si soffermasse su quale sia la caratteristica che differenzia il gioco della vita reale, quale sia il materiale che compone le mura che isolano la dimensione ludica da quella ordinaria. Si potrebbe essere tentati di suggerire la finzione. L’immaginazione fa certamente da padrona nei giochi, in quanto è necessario immaginare di essere qualcun altro (ad esempio, il generale di un esercito nel Risiko!), oppure immaginare di essere sé stessi in una situazione fittizia. Se si gioca alla guerra, si deve immaginare di sparare e di essere feriti e così via. Non sembra però che l’immaginazione sia una costante così generale da comprendere tutti i giochi, nel senso più ampio del termine: che cosa si sta immaginando di essere o di fare durante una partita a carte, ad esempio?

Quello che rende il gioco una dimensione davvero separata e differente dalla vita reale è l’esistenza delle regole del gioco. Tutti i giochi hanno infatti delle regole da rispettare per poter giocare: alcuni giochi hanno regole estremamente complesse, altri hanno regole molto semplici, alcuni hanno regole palesi che vengono esplicitate fin da subito, altri hanno regole implicite che non serve specificare. Tutti i giochi però hanno un set di regole che stabiliscono l’obiettivo del gioco e il modo di procedere verso questo obiettivo. Prendiamo ad esempio il Monopoli: le regole stabiliscono che lo scopo del gioco è far fallire gli altri giocatori e rimanere l’ultimo giocatore con un capitale. Per giungere a questo obiettivo le regole stabiliscono un tabellone diviso in caselle, un modo di muoversi su questo tabellone, un modo di utilizzare il proprio denaro e di riceverne dagli altri giocatori, e così via. Se prendiamo ad esempio il nascondino invece, le regole sono molto semplici: i giocatori hanno l’obiettivo di nascondersi e di arrivare a toccare la tana prima di quell’unico giocatore con l’obiettivo di cercarli e si dà un tempo iniziale in cui il cercatore tiene gli occhi chiusi.

A questo punto possono sorgere due perplessità alquanto gravi. In primo luogo, siamo proprio sicuri che siano le regole a distinguere il gioco dalla vita reale? È vero che, a differenza della finzione e dell’immaginazione, si tratta di una caratteristica comune a tutti i giochi, ma non è forse vero che anche nella vita reale esistono delle “regole”? Certo, sono regole diverse che chiamiamo leggi o imperativi categorici o princìpi morali, ma non si tratta della stessa cosa, solo in ambito diverso? In secondo luogo, anche ammettendo che siano proprio le regole a distinguere la dimensione ludica da quella della vita reale, non abbiamo forse detto che il gioco ha il fine del divertimento? L’esistenza di regole non è forse in genere concepita come qualcosa di noioso e antipatico che impedisce il divertimento?

Regole e “leggi”

Per quanto riguarda la prima domanda, bisogna notare come ci sia una netta differenza tra le regole di un gioco e le “regole” della vita reale: le prime infatti hanno un carattere vincolante che le seconde non hanno. Non si può non ubbidire alle regole del gioco, mentre si può disobbedire alle leggi. È bene notare come questo discorso chiami in causa la pura e semplice possibilità, non la moralità o meno delle proprie azioni: ci pare ovvio sottolineare che disobbedire alle leggi di uno stato è molto grave e che non si dovrebbe fare, ma la discussione si trova su di un altro piano. L’essere umano ha infatti libertà assoluta in ogni contesto in cui si trova: di fronte ad ogni possibile azione che egli si prefigura di compiere, ha la possibilità di figurarsene innumerevoli altre e di dare adito a queste. Facciamo un esempio concreto: sto camminando lungo la strada e vedo da lontano una persona che mi sta antipatica. A questo punto nella mia mente si affastellano diverse possibili azioni: potrei andargli incontro e ignorarlo, andargli incontro e rivolgergli una battuta sprezzante, andargli incontro e parlargli gentilmente, cambiare strada prima di incontrarlo oppure addirittura andargli incontro e sferrargli un pugno. Io ho la libertà di scegliere una qualsiasi di queste azioni, a prescindere da quali io reputi corrette in base ai miei princìpi morali, legali in base alle leggi vigenti o convenienti in base alle conseguenze. Tutti questi elementi possono aiutarmi nella scelta, dandomi dei motivi per una azione piuttosto che per un’altra, ma non sceglieranno mai per me, perché solo io ho l’ultima parola sull’azione che scelgo di seguire. Resti bene inteso che questo non implica che l’azione poi eseguita sia possibile o che rispecchi esattamente quanto prefigurato: la mia libertà assoluta è libertà di volere, non di azione. Immaginiamo di essere escursionisti in montagna e di essere talmente stanchi da non poterci neanche reggere sulle gambe: nonostante ciò, possiamo ancora scegliere di voler camminare e di continuare l’escursione, anche se questo è fisicamente impossibile.

Se è stato compreso il discorso precedente, viene naturale rivolgere la stessa riflessione contro le regole di un gioco: la nostra libertà assoluta dovrebbe estendersi anche sui giochi e vanificare la presenza di regole allo stesso modo in cui sono trattate leggi, conseguenze o princìpi. Ritengo invece che la dimensione ludica si distacchi da questo discorso, proprio per la presenza delle regole, che, come abbiamo detto più volte, distinguono la vita reale, dove vige assoluta libertà, dal gioco. Le regole di un gioco sono vincolanti e necessarie, impossibili da infrangere, perché configurano il gioco in ogni suo aspetto. L’elenco delle regole stabilisce infatti quali azioni sono parte del gioco, escludendo di fatto tutto il resto: se durante una partita di scacchi prendessi la mia regina e la posizionassi fuori dalla scacchiera, pretendendo che essa possa minacciare il re avversario, sarebbe ridicolo e non farebbe parte del gioco. Le regole stabiliscono a priori quale sia l’obiettivo finale e quali possibili scelte si possono intraprendere per arrivare alla fine. Qualunque scelta non contemplata dalle regole ma messa in atto, porrebbe il giocatore al di fuori dalla dimensione ludica, ricacciandolo in quella della vita reale. Se a Risiko! avessi l’obbiettivo di distruggere le armate verdi, non sarebbe possibile farlo prendendo i piccoli carri armati dalla plancia e lanciandoli fuori dalla finestra: nel momento in cui non seguo le regole, non sto più giocando. La stessa cosa non si può dire invece per leggi o princìpi morali: nel momento in cui smettessi di seguirli, nel momento in cui tirassi un pugno alla persona antipatica che incontro per strada, smetterei forse di appartenere alla dimensione della vita? Assolutamente no. Quando invece violo le regole del gioco, mi pongo al di fuori della dimensione ludica e smetto di giocare. L’unica libertà che posseggo nei confronti del gioco è scegliere se partecipare o meno alla partita. Questa scelta però si svolge prima di entrare nella dimensione ludica, quando ci troviamo ancora immersi nella vita reale. Non è dunque una scelta che appartenga alle regole del gioco: queste hanno il compito di delimitare una situazione, stabilendone condizioni di partenza, fini e azioni da intraprendere e, per restare dentro a questa dimensione, non si può fare altro che seguirle.

Regole e divertimento

Se magari in un primo momento la seconda perplessità posta sembra triviale, ora forse, avendo mostrato il carattere necessario in senso forte delle regole del gioco, il dubbio su come ci si faccia a divertire con vincoli così stretti e rigidi diventa più forte. Introducendo il secondo concetto tratto dalla riflessione di Sartre, intimamente legato a quello della libertà assoluta, risulterà più chiaro come sia proprio la presenza di regole così ferree ciò che permette il divertimento.

L’assolutezza della nostra libertà non è infatti una benedizione ma piuttosto una condanna a vita, una condizione spiacevole che ci accompagna per tutta la nostra vita. La più piena libertà di scelta, che può appagare l’ingenuo, nasconde sotto di sé l’angoscia della mancanza di senso della vita e della necessità di scegliere continuamente qualcosa. La nostra libertà è talmente forte che siamo noi a dover scegliere in che direzione condurre la nostra vita e ci sono spalancate davanti infinite possibilità e infiniti modi di raggiungere queste possibilità. Questo abisso che si apre ai nostri piedi è angoscioso e ci spaventa: dato che le scelte disponibili sono infinite, noi non sappiamo letteralmente cosa fare della nostra vita. Ognuno di noi sceglie dei percorsi, degli obiettivi futuri e delle idee di sé stesso per indirizzare meglio le proprie scelte ma questo non è che un modo precario di coprire l’abisso perché in ogni momento, se lo volessi, potrei fuggire da quel percorso intrapreso. Poniamo l’esempio di essere un musicista e di aver dedicato tutta la mia vita fino ad ora alla composizione di un album: il giorno della registrazione potrei semplicemente rifiutarmi di presentarmi e perdere così questa occasione. Ovviamente non si tratterebbe di una scelta saggia ma la mia libertà è tale da poterla compiere senza ostacoli. Per fare una colta citazione, la mia libertà è tale da poter affermare addirittura che 2+2=5. Questa caratteristica è ciò che rende la nostra libertà una condanna, ovvero il fatto di doverla sempre esercitare per dare un senso alla nostra vita e di poter sempre cancellare senza sforzo alcuno la direzione che abbiamo voluto dare finora.

Cosa c’entra però questo discorso, nucleo dell’esistenzialismo francese, con il tema del gioco che abbiamo affrontato in questo articolo? Nel suo L’essere e il Nulla Sartre fa l’esempio di un cameriere molto solerte nel suo lavoro: si avvicina agli avventori in fretta, esprime troppo interesse per l’ordine del cliente, torna a passo svelto tenendo il vassoio volutamente in precario equilibrio, si sforza insomma di concatenare le sue azioni come se fossero ingranaggi che si comandano l’un l’altro. «Tutta la sua condotta – dice Sartre – sembra un gioco. […] Egli gioca, si diverte. Ma a che cosa gioca? Non occorre osservarlo molto per rendersene conto: gioca a essere un cameriere […] gioca con la sua condizione per realizzarla». In altre parole, secondo Sartre, il cameriere gioca, interpretando un ruolo con degli obiettivi ben definiti (servire il cliente), delle azioni standard (muoversi in fretta, agitare il vassoio senza farlo cadere) e addirittura un costume (straccio sopra il braccio, papillon), per non avvertire la dimensione della libertà assoluta. Chi gioca a fare il cameriere ottiene improvvisamente uno scopo nella vita e i modi di raggiungerlo e dunque fintanto che gioca a essere un cameriere non si deve preoccupare dell’infinità delle altre possibilità. Chi gioca a fare il cameriere, non può valutare la possibilità di percuotere il cliente con il vassoio (anche se ogni tanto la tentazione ci può essere), perché è una possibilità esclusa dalle regole del gioco-cameriere. Allo stesso modo, chi gioca a scacchi, non può valutare la possibilità di posizionare i propri pezzi al di fuori della scacchiera. Si tratterebbe certamente di una azione possibile nella dimensione della vita reale, poiché in questa dimensione, data la nostra condanna alla libertà, tutto è possibile. Ma non sarebbe una azione possibile nella dimensione ludica, in cui esistono regole vincolanti e necessarie.

In questo senso allora si può comprendere come il gioco sia divertente: esso distrae dalla nostra vita, una dimensione dove non esistono obiettivi, se non quelli che scegliamo noi ex-novo, né azioni da compiere, se non quelle che scegliamo noi ex-nihilo, per portarci in una dimensione dove l’obiettivo è stabilito e le azioni possibili sono ristrette ad una gamma limitata. Il divertimento del gioco consiste nel darci una situazione con delle certezze.

Conclusione

Non rimane molto altro da dire e spero che il lettore abbia seguito l’articolo agilmente, nonostante la portata del tema, e con interesse. Per riassumere quanto detto sopra sulla dimensione ludica, si tratta di una dimensione da tenere distinta dalla nostra vita ordinaria per la sua caratteristica di possedere regole inviolabili, le quali limitano la libertà assoluta che sperimentiamo ogni giorno. Questo limite, benché temporaneo e circoscritto, è ciò che ci permette di divertirci e di allontanarci dall’angoscia che proviamo durante la nostra vita.

Infine, un piccolo progetto: esistono altri spunti di riflessione molto interessanti sul tema del rapporto tra vita e gioco che vengono forniti dai videogiochi. In particolare, esistono videogiochi che da una parte cercano di simulare la vita reale, dandoci la possibilità di costruire un alter-ego e di guidarlo in un mondo dove si è liberi di fare ogni cosa, e dall’altra che ci permettono di fare esperienze impossibili in questo mondo, fornendoci un altro tipo di divertimento da quello trattato sopra. Questo tema sarà al centro di un prossimo articolo, attualmente in cantiere.