Tra i parametri che concorrono a definire la musica, il ritmo è forse quello più intuitivo e primordiale. La presenza di strumenti musicali in grado di produrre unicamente suoni ad altezza indeterminata è, infatti, attestata fin dalle civiltà più arcaiche. In antica Grecia, ad esempio, durante i rituali dedicati al culto dionisiaco erano presenti in gran numero strumenti come il τύμπανον (“tùmpanon”, una sorta di tamburo) e il σεϊστρον (“sèistron”, un antichissimo strumento a sonagli già noto agli antichi egizi), le cui ritmiche contribuivano a generare lo stato di trance in cui dovevano cadere i partecipanti. Nel corso del ‘900, grandi didatti della musica come Émile Jaques-Dalcroze, Maurice Martenot e Carl Orff posero tutti il ritmo come principio fondamentale dell’educazione musicale all’interno della loro metodologia didattica. Anche durante la vita di tutti i giorni sentiamo spesso dire “questa canzone ha proprio un gran ritmo!” oppure, magari durante un ballo di gruppo, “cerca di seguire il ritmo!”. Ma che cos’è, in ultima analisi, il ritmo musicale? È qualcosa che effettivamente appartiene a livello intrinseco ai brani musicali oppure si tratta di una costruzione psicologica che ha origine e si sviluppa nella mente? In questo articolo vorrei provare a rispondere a queste domande.

Per poter comprendere che cosa sia il ritmo musicale, è necessario prima capire che cosa sia il ritmo tout court. Per farlo, possiamo avvalerci dell’aiuto della fisica e, in particolare, del concetto di fenomeno periodico. Di che cosa si tratta? Pensiamo al susseguirsi dei giorni della settimana o delle stagioni: in entrambi i casi gli elementi si susseguono sempre nello stesso ordine e sempre nello stesso periodo di tempo. Un fenomeno periodico è, pertanto, un fenomeno ricorsivo, all’interno del quale gli avvenimenti si ripetono in maniera sempre uguale in tempi uguali. Lo svolgimento completo del fenomeno periodico viene denominato ciclo, mentre la durata del ciclo viene detta periodo.Nel caso della settimana il ciclo dura sette giorni, in quello delle stagioni dodici mesi. Al termine di ogni ciclo, questo ricomincerà da capo, impiegando lo stesso periodo di tempo per terminare. Che legame ha tutto questo con la nostra indagine sul ritmo? È presto detto: il ritmo è a tutti gli effetti un fenomeno periodico. Possiamo accorgercene con un semplice esperimento: iniziamo ad aprire e chiudere una mano mantenendo costante e uniforme il movimento. Ad un certo punto, cominciamo a contare mentalmente le chiusure fino a 4, ricominciando da capo ogni volta che saremo arrivati a quattro. Avremo così ottenuto un ciclo, il cui periodo sarà determinato dalla velocità con cui apriremo e chiuderemo la mano. Proviamo a raffigurarlo:

Fig. 1 L’esperimento della mano chiusa

La nostra mente è in grado di identificare il periodo di tempo in cui si svolge il ciclo, memorizzarlo e proiettarlo in avanti, “prevedendo” il ciclo successivo. In altre parole, la possibilità di individuare il ritmo di un qualsiasi fenomeno dipende dalla capacità della nostra mente di percepire la periodicità di quel fenomeno. Nel caso specifico del ritmo musicale, il fenomeno in questione è uno stimolo sonoro.

Per come l’abbiamo descritto, sembrerebbe che il ritmo abbia un’esistenza naturale ed oggettiva all’interno della musica, indipendente dalle misurazioni di chi lo ascolta, che si limiterebbe unicamente a percepirlo. Effettivamente, capita spesso di avvertire un determinato concorso del corpo all’ascolto di musiche che fanno utilizzo di ritmi serrati, come l’EDM (Electronic Dance Music), la musica house o la techno. Molto spesso, infatti, il ritmo di tali musiche è concepito a partire dalla frequenza (ovvero, dal numero di cicli in uno specifico arco di tempo) del battito cardiaco. La sensazione indotta dal loro ascolto è proprio quella di una progressiva accelerazione della pulsazione cardiaca. I sostenitori di una concezione oggettiva del ritmo musicale sono soliti descrivere quest’ultimo come un susseguirsi ordinato di accenti, servendosi di quella che viene denominata appunto teoria degli accenti. Di che cosa si tratta? In sostanza, secondo tale teoria alcuni suoni all’ interno del ciclo risulterebbero essere dinamicamente più marcati, e sarebbe proprio questa marcatura a consentire di capire quando il ciclo inizia e quando finisce. Attraverso questi suoni, sarebbe possibile isolare ogni ciclo e costruire una battuta. Gli accenti che costituiscono la marcatura e permettono di formare una battuta si distinguono solitamente in forti, mezzoforti e deboli. Credo che tutto questo risulterà molto più chiaro attraverso un esempio:

Ripensiamo al ciclo che abbiamo costruito con il nostro esperimento della mano. Il ciclo contava quattro tempi in tutto. Se dovessimo costruire una battuta musicale con un ritmo simile, indicando i singoli momenti del ciclo, essa avrebbe questo aspetto:        

Fig. 2 Battuta di 4 momenti

Dove si collocano i suoni più marcati in questa battuta? Secondo la teoria degli accenti, nel momento in cui un ciclo è costituito da quattro momenti si hanno un accento forte sul primo, uno debole sul secondo, uno mezzoforte sul terzo e uno debole sul quarto. Soltanto quando questa serie di accenti si sarà esaurita il ciclo inizierà di nuovo. Il risultato sarà il seguente (l’apostrofo indica l’accento forte, il simbolo “>” quello mezzoforte):

Fig. 3 Il rapporto tra accenti, ciclo e ritmo in un tempo quaternario

Nella musica occidentale, un ritmo di questo tipo dà origine a un tempo che viene considerato quaternario e denominato 4/4. Secondo la teoria degli accenti, esistono altre due tipologie di tempi individuabili sulla base delle marcature ritmiche: i tempi binari (come il 2/4 dell’allemanda) e quelli ternari (come il 3/4 del valzer). Il principio rimane il medesimo: immaginiamo di ripetere l’esperimento della mano ma di contare in un caso fino a 2 e nell’altro fino a 3. Il ciclo ritmico del tempo binario consta di due momenti, di cui il primo ha un accento forte e il secondo uno debole. Il ciclo ritmico del tempo ternario contiene invece tre momenti, dei quali il primo ha un accento forte e i successivi due uno debole. Unendo queste componenti, otterremo il seguente risultato:

Fig. 4 Il rapporto tra accenti, ciclo e ritmo nei tempi binari e ternari

Da tutto ciò, sembrerebbe dedursi che gli accenti siano una proprietà intrinseca e fattuale della musica, che stimola l’orecchio indipendentemente dalla sua “volontà” di ascoltare. Il ritmo sarebbe, pertanto, un fenomeno della realtà fisica. Ma siamo sicuri che sia davvero così? Gli accenti sono davvero rilevabili acusticamente? In alcune musiche, questo avviene senz’altro. Per verificarlo, proviamo a costruire uno spettrogramma acustico rilevando le variazioni di intensità in un segmento di un celebre brano di musica dance: Bla Bla Bla di Gigi D’Agostino. Noteremo che alcune di queste (evidenziate in rosso) sono più marcate (risultano più “dense” nello spettrogramma) e, soprattutto, la loro successione è regolare:

Fig. 5 Spettrogramma di Bla Bla Bla (1999) con rilevazione delle marcature, 1:18-1:25

In questo brano, la regolarità degli accenti è fisicamente presente. Tuttavia, questo non avviene in tutta la musica esistente. Se, infatti, provassimo a compiere un’operazione analoga con un brano musicale più vecchio di 400 anni come il Sicut cervus di Palestrina, noteremmo che gli accenti non sono assolutamente rilevabili a livello fonetico:

Fig. 6 Spettrogramma del Sicut cervus di Palestrina (1604), 0 24-0:40

In questo caso, non è possibile operare una scansione ritmica basandosi sulla maggiore intensità di alcuni suoni, perché questa non è assolutamente regolare. Di conseguenza, possiamo concludere che la fisicità del ritmo musicale non è un carattere fondante della musica. Quella di distribuire le marcature sonore in modo regolare è una scelta consapevole e volontaria del compositore o dell’esecutore, che possono tranquillamente decidere di non farlo o di variare gli accenti a proprio piacimento. A pensarci bene, la natura psicologica e mentale del ritmo è piuttosto evidente.

Sebbene sia infatti perfettamente in grado di percepirlo, il cervello non ha alcun obbligo di associare una sequenza di suoni o di movimenti fisici ad una precisa periodicità. Deve volerlo fare. L’abbiamo notato anche con il precedente esperimento della mano: il ciclo (e, di conseguenza, il ritmo) si è formato nella nostra mente soltanto quando noi abbiamo deciso di iniziare a contare. Ma c’è di più. Dal momento che ogni cultura produce musica differente utilizzando linguaggi musicali differenti, i compositori e i musicisti che appartengono a culture diverse concepiscono il ritmo in maniera radicalmente diversa. Una successione ritmica che appare impetuosa e trascinante ad un musicista o ad un ascoltatore occidentale può non esserlo assolutamente per uno indiano, e viceversa. I raga, ad esempio,ovvero le strutture fondanti della musica colta indiana, presentano ritmiche estremamente complesse e spesso incomprensibili (nonché per nulla stimolanti) per i musicisti europei. La natura psicologica del ritmo è proprio uno dei fattori che mettono maggiormente in crisi l’assunto secondo il quale la musica sarebbe un linguaggio universale, se non addirittura il fattore principale.

Il ritmo si origina nella mente dei compositori, così come gli accenti che essi potranno decidere se marcare dinamicamente o meno. Successivamente, l’ascoltatore decifrerà l’idea di ritmo del compositore sulla base di una conoscenza condivisa del codice da questo adottato. Soltanto a patto che tra il compositore e l’ascoltatore vi sia una condivisione della concezione ritmica quest’ultimo potrà apprezzare appieno il prodotto del primo. Consci di questo, molto spesso, i compositori “giocano” con le aspettative ritmiche degli ascoltatori, adottando soluzioni che portano la mente di chi le ascolta ad elaborare mentalmente associazioni ritmiche differenti da quelle effettive. Un esempio emblematico può essere rilevato nel brano Domination della band groove metal Pantera:

Fig. 7 Ritmica del riff di Domination (1990)

Si tratta di un riff di due battute, che viene ripetuto dal minuto 3:50 sino alla fine. In questo caso, la scelta è quella di adottare una cellula ritmica ben precisa (evidenziata in rosso), costituita da due suoni veloci e uno più lungo, ripetendola quattro volte nella prima battuta e marcando il primo suono di ognuna. La seconda battuta non marca il primo suono e modifica la cellula (evidenziata in blu), costituita questa volta da un suono lungo e due corti. L’ascoltatore, aspettandosi le quattro marcature su un suono corto udite in precedenza, rimane sorpreso nel non sentire la prima e, non rendendosi subito conto che la cellula ritmica è cambiata, resterà disorientato, non rilevando più la regolarità degli accenti. In verità, come si nota dall’immagine, le marcature rimangono poste esattamente nello stesso punto: sul primo suono di ogni cellula ritmica. Un semplice ma efficace espediente che gioca con la creazione del ritmo nella mente dell’ascoltatore.   

Quale conclusione possiamo trarre da queste analisi? La natura psicologica del ritmo musicale è innegabile, ma ciò non impedisce assolutamente che questo abbia delle caratteristiche tangibili e fisiche. Tuttavia, queste emergono solamente perché vi è la volontà di farle emergere, di renderle percettibili. È attraverso un principio di astrazione e associazione che il ritmo musicale può prendere forma, e la marcatura sonora non è che un modo per rendere concreto e corporeo il modo in cui la mente ha operato l’associazione. Siamo circondati da suoni nella realtà fisica, ma la possibilità di ordinarli e trasformarli in musica è dentro di noi. Dentro le nostri menti ritmiche.