L’ultimo lavoro del regista Terry Gilliam, già noto per la sua partecipazione ai Monty Python e per film iconici come La leggenda del re pescatore (1991) o L’esercito delle 12 scimmie (1995), è un lungometraggio liberamente ispirato dal Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes. L’uomo che uccise Don Chisciotte (Scheda Imdb), mediamente apprezzato dalla critica, è, a giudizio di chi scrive, un piccolo capolavoro con il pregio, non indifferente, di cogliere in profondità e di ritrarre perfettamente sullo schermo, lo spirito di un personaggio così complesso come è il Don Chisciotte letterario. In questo articolo, cercheremo di mostrare le ragioni ma, per farlo, dovremo fare riferimento più volte alla trama del film e del romanzo, dunque il lettore che non volesse rovinarsi il piacere di guardare il film e di farsi sorprendere è avvisato.

Chi è Don Chisciotte

Quale è lo spirito di Don Chisciotte, il senso profondo di questo personaggio? Nel senso comune, Don Chisciotte è un uomo che si pone un obiettivo impossibile, folle e totalmente al di fuori della propria portata e che al contempo si impegna in esso con tutte le proprie forze, senza arrendersi agli infiniti ostacoli che gli si pongono davanti, dando la netta impressione che si tratti di un uomo solo contro il mondo. Potremmo dire che dunque la sua caratteristica fondamentale è la perseveranza e la tensione verso un fine, sotto la guida di princìpi irrinunciabili.  Questo elemento del carattere è ben colto dalla storia della produzione del film. La produzione de L’uomo che uccise Don Chisciotte iniziò infatti nel 2000 con un cast, una troupe e una sceneggiatura ben diverse da quelle definitive: pochi giorni dopo l’inizio delle riprese infatti un nubifragio colpì il set rovinando le pellicole, le attrezzature e soprattutto il paesaggio desertico in cui si voleva ambientare il film, mentre l’attore protagonista Jean Rochefort fu costretto a ritirarsi per problemi medici. La produzione fu allora cancellata e le poche riprese effettuate furono trasformate in un documentario dal titolo Lost in La Mancha. Tra il 2005 e il 2016 Gilliam provò altre due volte ad riprendere il progetto ma non riuscì mai a dare avvio alle riprese. Infine, nel 2017, riuscì ad avviare le riprese, con un cast completamente diverso e una sceneggiatura molto modificata, e a concludere il film iniziato quasi venti anni prima. Questa vicenda appare già come una simbolica rappresentazione del carattere di Don Chisciotte, così come viene delineato nel senso comune: Gilliam ha lottato contro il suo gigante/mulino a vento personale, finché contro ogni previsione non è riuscito a concludere il film.

Vi è però un ulteriore tratto del carattere del personaggio da sottolineare, ovvero il fatto che Don Chisciotte sia un folle: il romanzo di Cervantes non è infatti un racconto epico al pari dell’Orlando Innamorato o della Gerusalemme Liberata ma è la storia di Alfonso Quijano, hidalgo spagnolo amante dei romanzi cavallereschi che, avendone letti troppi, entra in un delirio in cui si crede un cavaliere dei tempi andati. Alfonso quindi impazzisce e si convince di essere una persona che in realtà non è, conducendo la propria vita e quella dei malcapitati che gli stanno attorno come se fosse quella di un cavaliere tardo-medievale. La follia, nella sua particolare forma che impedisce la distinzione tra il reale, ovvero la Spagna alla fine del suo secolo d’oro, in cui i grandi ideali cavallereschi sono ormai spariti, e il fittizio, le avventure di cavalieri, giganti, incantatori e principesse, è un elemento fondamentale del carattere di Don Chisciotte. L’impossibilità di distinguere ciò che è reale e ciò che è fittizio è un elemento che appartiene però soltanto al personaggio Don Chisciotte e non al romanzo: nella sua graffiante ironia, Cervantes non lascia mai intendere che ciò che il valoroso cavaliere della Mancia vede sia in un qualche modo reale, si tratta sempre di follia.

Realtà e Finzione

Nel tentativo di cogliere in profondità quello che è il senso del romanzo di Cervantes e del suo protagonista, Terry Gilliam deve necessariamente riprodurre la confusione tra reale e fittizio, cosa che fa con estrema bravura. C’è da sottolineare anche come il medium cinematografico si presti con grande poliedricità a questo fine: il cinema è, da quando fece scappare gli spettatori spaventati dall’arrivo del treno – quindi da sempre – lo strumento in cui realtà e finzione si confondono maggiormente.

Nel film, Adam Driver è Toby Grisoni, un regista pubblicitario che, privo di ispirazione artistica, si trova in Spagna per girare uno spot sull’energia eolica ispirato all’episodio dei mulini a vento di Don Chisciotte. Qui trova una copia di L’uomo che uccise Don Chisciotte, film girato dallo stesso protagonista molti anni prima, durante una vacanza in Spagna con amici: il film, girato senza macchinari e utilizzando la gente del posto come attori, gli fa salire la nostalgia e lo spinge a recarsi nel paesino visitato in gioventù. Qui scopre che Angelica, ragazza a cui anni prima aveva promesso la fama nel mondo del cinema, è scappata di casa, mentre Javier, il ciabattino che interpretava Don Chisciotte, è impazzito e crede di essere il vero Don Chisciotte (si dovrà discutere dell’aggettivo “vero” applicato ad un personaggio letterario). Negli eventi che seguono, Toby si trova costretto, per sfuggire alla polizia, a seguire Javier, che lo ha scambiato per Sancho Panza, negli episodi che caratterizzano la storia di Don Chisciotte. Il finale del film vede Toby e Javier invitati ad una festa in costume medievale da Alexei Miskiin, losco faccendiere russo e geloso amante di Angelica: durante la festa, sembra che Miskiin stia per uccidere Angelica e Toby si getta al suo salvataggio, scoprendo però che si trattava solo di una messa in scena e accidentalmente causando la morte di Javier nella concitazione del momento. Il giorno successivo Toby e Angelica seppelliscono il corpo di Javier e il regista, convinto di aver visto dei giganti, li carica lancia in resta, finendo colpito quasi a morte dalle pale di un mulino. Al suo risveglio, Toby afferma di essere Don Chisciotte e, prendendo Angelica come Sancho Panza, si dirige verso nuove avventure.

Al di là dei dettagli della trama, è facile capire come il film giochi costantemente non soltanto con le nostre percezioni di realtà e finzione ma anche con quelle dei personaggi: mentre nel romanzo, la confusione tra ciò che è vero e ciò che è finto è circoscritta alla prospettiva interna (ovvero quella dei personaggi) e per di più soltanto alla prospettiva particolare di Don Chisciotte, nel film la confusione appartiene tanto alla prospettiva interna quanto a quella esterna. Vi sono momenti in cui lo spettatore non sa cosa sia vero e cosa sia finto, ma vi sono dei momenti in cui questo confine è labile anche per i personaggi. In particolare, credo che il film proponga l’emergere della finzione e la confusione con gli eventi reali tramite due modalità diverse, vi sono infatti:

  • Pura finzione immaginativa: è la modalità con cui si dà la finzione per Javier e per Don Chisciotte in generale ed è una modalità che si fonda esclusivamente sul fatto che il vecchio ciabattino, come Alfonso Quijano, impazzisce. La storia ricca di elementi magici e fantastici, come incantatori, giganti, mori da convertire e cavalieri da affrontare in singolar tenzone, non è reale sotto nessun punto di vista (meno quello del folle, appunto). Terry Gilliam, creatore del film e occhio divino sulla vicenda, non mostra niente di ciò che Javier vede, non offrendo quindi alcuna prova all’occhio né dello spettatore né di Tony. Gli eventi che Javier vive non sono nemmeno “eventi”, perché non sono fatti che accadono in un luogo e uno spazio determinato: sono solo le visioni di un folle.
  • Finzione in divenire: la finzione non appartiene però solo alla vicenda vissuta da Javier ma anche in quella vissuta da Tony. Vi sono infatti diversi episodi la cui realtà, tanto per Tony quanto per lo spettatore, è dubbia e che sembrano quindi spalancare la porta all’incredibile e all’immaginazione pura, in senso più radicale di quello precedente, in quanto Gilliam mostra tutto quello che Tony crede di vedere, dandogli così realtà effettiva anche agli occhi dello spettatore. In particolare, si tratta di due sequenze del film: una centrale, che si svela poi essere un sogno, in cui Tony si trova improvvisamente catapultato indietro nel tempo (quasi a dare ragione alla follia di Javier), e una finale, in cui Tony crede che il rogo su cui sta per essere bruciata Angelica sia reale. Fino al momento in cui non viene resa esplicita l’irrealtà della situazione, lo spettatore presta fede al punto di vista di Tony anche quando egli si trova di fronte ad avvenimenti magici o incredibili.

Lo scontro tra prospettive

È assolutamente evidente, dalla stessa descrizione che ne abbiamo fatto, che la confusione tra ciò che è vero e ciò che è falso è dovuta sempre alla prospettiva tramite cui si guarda l’evento. Gilliam si schiera sempre, portando con sé lo spettatore, dalla parte di Tony, mostrando sempre quello che lui vede, sia quando si tratti della realtà (Tony vede che quelli non sono giganti ma mulini a vento) sia quando si tratti della finzione-per-Tony (il sogno o il finto rogo). La prospettiva di Javier non è mai mostrata e quindi non è avvalorata e confermata dalla prospettiva oggettiva di chi osserva la vicenda dall’esterno, sia esso Tony, Gilliam o lo spettatore. A ben pensarci, è infatti solo la possibilità di accedere ad una prospettiva esterna, quella tipica di un narratore onnisciente, a distinguere le due modalità con cui si dà la finzione nel film: Tony infatti crede che il sogno o il rogo siano reali fino al momento in cui non si sveglia o rinsavisce, accedendo quindi ad una prospettiva “esterna”, differente da quella che aveva in precedenza, interna e quindi profondamente coinvolto nella vicenda. A distinguere le due situazioni è quindi la possibilità, che Javier non ha, di fare un passo indietro e, guardando ciò che si è appena vissuto, di dirsi “non era vero”, come fa chi ha guardato un film dell’orrore per confortarsi. Bisogna poi sottolineare come tutta la vicenda di Don Chisciotte, anche nel romanzo, presupponga il continuo scontro tra due prospettive personali, una delle quali viene avvalorata da altre persone, andando a costituire la “realtà” della storia: i due personaggi principali, Don Chisciotte e Sancho Panza, si scontrano costantemente su come vedere le cose. Se per Sancho quello che si trova davanti ai due avventurieri è un gregge di pecore, per Don Chisciotte è un esercito di mori che sta andando a saccheggiare un convento.

Il conflitto tra le due prospettive non è però, come potrebbe sembrare ad una lettura superficiale, soltanto uno scontro tra ciò che vede un matto e ciò che invece è reale: comporta infatti uno scontro tra sistemi di pensiero radicalmente differenti. Così, Sancho Panza è un realista e materialista: lui vede le cose esattamente come stanno e si sforza di riportarle nella loro forma oggettiva, senza volerci vedere nulla di più, senza voler compiere un qualche slancio immaginativo in nome di un fine più grande; per Sancho l’importante è avere la pancia piena a fine giornata. Don Chisciotte è invece un idealista e il suo guardare il mondo non è un mero atto descrittivo ma un atto interpretativo, che quindi porta qualcosa del personaggio nel mondo: Don Chisciotte interpreta il mondo, ovvero lo ordina secondo princìpi ideali e in direzione di un fine ultimo. Per Don Chisciotte, che vuole vedere il mondo in questo modo, la vita è letteralmente un romanzo cavalleresco e, come in una narrazione, ogni evento assume significato solo se in virtù del fine della narrazione, solo se vuole dimostrare la tesi dell’autore. Se si pensa ad un qualsiasi romanzo, ci si accorge ben presto di come vi siano raccontati solo gli elementi utili alla storia, solo ciò che aiuta la storia a proseguire verso la propria conclusione e il proprio fine. Don Chisciotte vive la propria vita allo stesso modo: vive e percepisce solo gli eventi che si accordano con i propri ideali e interpreta la realtà in modo che questa sia coerente con la propria scelta di vita.

Questo è allora il vero spirito di Don Chisciotte: una profondissima convinzione nel tentativo di piegare il mondo ai propri ideali, cosa che per chi quegli ideali non condivide o per chi di ideali proprio non ne ha appare come pura follia ma che invece per il Don Chisciotte di turno appare come l’unica realtà per la quale battersi. Tornando al film, Gilliam si dimostra abilissimo nel riuscire a mostrare anche questo tratto profondo del personaggio e a mostrare come Don Chisciotte non sia davvero matto ma che si possa condividere la sua missione e il suo modo di vedere. Il regista lo fa proprio tramite quegli episodi in cui, anche se solo momentaneamente, è Tony a non riuscire a vedere le cose come stanno ma come vorrebbe che fossero in accordo con gli ideali della cavalleria, dell’avventura e con il fine della gloria e della felicità dell’amata. Quando Tony sogna di essere tornato indietro nel tempo e soprattutto quando crede che il rogo di Angelica sia reale, non sta semplicemente impazzendo ma si sta trasformando in Don Chisciotte, sta imparando a vedere il mondo come lo vede Don Chisciotte. Così anche lo spettatore, che segue sempre la prospettiva di Tony, capisce cosa voglia dire essere il cavaliere della Mancia e capisce che non si tratta di semplice follia ma di imbracciare una prospettiva idealista nei confronti del mondo. Essere Don Chisciotte non vuol dire essere folli, ma vedere il mondo in un certo modo.

Il ruolo di Don Chisciotte

In conclusione, vi è un ultimo punto che mi preme sottolineare, ovvero la natura di personaggi letterari come Don Chisciotte e Sancho Panza. A differenza di molti altri personaggi, i due protagonisti del romanzo di Cervantes hanno la peculiarità di non essere solo persone reali ma bensì di essere marcatamente dei “ruoli”. Certo, all’interno della storia, presi in una prospettiva interna, Sancho è un contadino che fa lo scudiero, ha una data di nascita e ne potrebbe avere una di morte, indossa dei vestiti particolari, insomma è, all’interno della storia, una persona in carne ed ossa. Anche Don Chisciotte lo è, anche se in maniera più velata (infatti è l’alias di Alfonso Quijano dopo l’ennesima lettura) ma entrambi compongono anche dei ruoli, in quanto vengono definiti non tanto dalle loro caratteristiche materiali ma dalle loro funzioni. Don Chisciotte è quel personaggio che vede il mondo in un certo modo, ha la funzione di vedere il mondo in un certo ruolo. Come tutto ciò che viene definito in base alla funzione che svolge, non vi sono limiti al materiale che effettivamente si mette a svolgere la funzione: non importa quindi se a svolgere la funzione di Don Chisciotte, ad interpretare il mondo in accordo alle leggi della cavalleria, sia Alfonso Quijano, Javier il ciabattino, Tony il regista o Mario Rossi il panettiere. Don Chisciotte è un ruolo che, come accade per il teatro, può essere interpretato da molteplici attori differenti.

Che Don Chisciotte, come anche il suo alter ego Sancho Panza, sia un ruolo da interpretare è chiarissimo per Terry Gilliam, che nel finale ci mostra appunto come chiunque possa svolgere la funzione dei due personaggi. Interpretare Sancho Panza è semplice, perché la prospettiva materialista e realista che caratterizza lo scudiero è straordinariamente diffusa, oggi più e in forme ben più radicali dell’epoca di Cervantes: tutti noi siamo in partenza Sancho Panza. Don Chisciotte è più difficile da interpretare, perché comporta una prospettiva idealista che possiamo abbracciare ma che in pochi condividono, ma rimane comunque una possibilità. Sancho Panza può trasformarsi in Don Chisciotte, a patto di prendere un altro scudiero con cui continuare l’avventura e con cui scontrarsi. Ma non di meno, Don Chisciotte, colui che interpreta e ordina il mondo a partire dalla propria soggettività, è un ruolo fondamentale. Ed è per questo che Tony, nella chiusura del film ripete una frase di Javier: “Don Chisciotte non morirà mai”. Come potrebbe infatti morire un ruolo?