Stealthy swiftness of a leopard,
Happy singing of a bird

In the morning, I am loyal
Like the comfort of a friend.
But the morning grows more lifeless
Than the fabric of a rag
And the mid-day makes me nervous
Like the spirit of a bride.

Active frenzy of a beehive,
Dreary blackness of a cave.

In the daytime, I am slimy
Like the motion of a snake.
But the sunlight grows more comfy
Than the confines of a couch.
And the day, it makes me tasty
Like the flavor of a coke.

Shiny luster of a diamond,
Homey feeling of a bed.

In the evening, I am solid
Like the haven of a house.
But the evening grows more fragile
Than the mindset of a child.
And the twilight makes me frozen
Like the bosom of a corpse.

Famous fervor of a poet,
Wily movement of a cat.

In the night-time, I am hollow
Like the body of a drum.
But the moonlight grows more supple
Than the coating of an eel.
And the darkness makes me subtle
Like the color of a gem.

Stealthy swiftness of a leopard,
Happy singing of a bird.

Quando ci sforziamo di chiederci quali siano gli aspetti appartenenti al genere umano che gli conferiscono una qualche forma di esclusività, difficilmente siamo portati ad escludere da questa ipotetica lista la creatività. Riteniamo, infatti, che la creatività (che in questo articolo verrà trattata nella sua nozione preteorica) sia una di quelle caratteristiche che maggiormente ci distinguono da altre forme di vita: mentre, ad esempio, potremmo essere inclini a garantire una qualche forma di coscienza persino a certe categorie di animali, di certo non attribuiremmo loro la capacità di creare enti, concreti o astratti, con un certo grado di espressività artistica. Almeno intuitivamente. A partire dagli ultimi decenni del Novecento, tuttavia, si sviluppa una nuova branca del sapere – a cavallo tra informatica, arti e filosofia – che tenta di mettere in crisi questa concezione: stiamo parlando della creatività computazionale. Come suggerisce il nome stesso, per creatività computazionale si intende «lo studio […], tramite mezzi e metodi computazionali, di comportamenti esibiti da sistemi naturali ed artificiali, che sarebbero considerati creativi se esibiti da umani» (Geraint Wiggins, “Searching for computational creativity”, in New Generation Computing), lo studio, cioè, di atti, espressioni, produzioni o manifestazioni le quali avrebbero sufficiente dignità artistica da essere bollate come opere di creatività – anche ad un livello intuitivo – se solo fossero il risultato di una azione umana. Lo stesso componimento poetico in apertura è frutto dell’azione di un computer, e – tralasciando il mero godimento estetico, ascrivibile ai singoli – difficilmente verrebbe considerato come un’opera di pura meccanica, senza alcun valore artistico, a meno di non conoscerne l’autore (cfr. in merito Simon Colton, Jacob Goodwin e Tony Veale, esposto in Full-FACE Poetry Generation).

L’area di interesse degli studiosi di creatività computazionale, tuttavia, non si limita solamente alla poesia o all’ambito letterario – in cui possiamo ricordare progetti come il sistema Sardonicus (University College Dublin) o JAPE, il Joke Analysis and Production Engine (Center for Computer-Assisted Research in the Humanities, Stanford). I “computer creativi” danno sfoggio delle loro abilità nei più disparati ambiti artistici, a partire dal dominio delle arti visive: famosi esempi di macchine produttrici d’arte sono, ad esempio, AARON (ad opera di Harold Cohen) o The Painting Fool. Nemmeno la nobile arte musicale viene risparmiata da questa tensione computazionale. Qui spiccano progetti come EMI (Experiments in Musical Intelligence) in grado di produrre nuova musica dall’analisi di brani già composti, decostruendoli nelle loro componenti fondamentali, rielaborate poi in maniera originale. David Cope, creatore di EMI e Dickerson Emeriti Professor presso la University of California, Santa Cruz, commenta in questo modo i risultati ottenuti e, soprattutto, la loro ricezione da parte del pubblico: «The works have delighted, angered, provoked, and terrified those who have heard them.» (Le opere hanno compiaciuto, fatto arrabbiare, hanno provocato e terrorizzato coloro che le hanno ascoltate, n.d.r.).

Perché, dunque, una tale reazione, peraltro largamente riscontrabile tra coloro che si avvicinano a questo ambito? Il nostro attaccamento a ciò che la creatività rappresenta – creatività che storicamente abbiamo sempre sentito come propria dell’uomo solamente – è tale da non permetterci un’apertura nei confronti di una forma innovativa di produzione artistica, per quanto di pari dignità? O forse vi è realmente una differenza nel valore artistico del gesto umano rispetto alla mera computazione? Cope dà una risposta che guarda con speranza al futuro: «Ultimately, the computer is just a tool with which we extend our minds. The music our algorithms compose are just as much ours as the music created by the greatest of our personal human inspirations.» (In definitiva, il computer è solo uno strumento tramite il quale noi estendiamo la nostra mente. La musica composta dai nostri algoritmi è nostra tanto quanto lo è quella creata dai più grandi tra gli uomini che ci ispirano. N.d.r.)

La risposta di questo articolo, invece, vuole essere molto meno perentoria e ambiziosa; tanto provocatoria quanto i pezzi composti da EMI – o da uno qualsiasi dei progetti succitati – e tanto problematica da essere, di fatto, una domanda: se, a livello di risultati, non riusciamo a distinguere (nei casi migliori) tra un brano autografo di grandi compositori e uno scritto ex novo da una macchina che ha analizzato e dissezionato l’opera magna degli stessi, siamo davvero legittimati nel voler apporre un’etichetta di esclusività a quanto prodotto dall’umano? Se una qualsiasi opera artistica è in grado di emozionarci, di farci vivere appieno un’esperienza di natura estetica – obiettivo ultimo, a mio dire, dell’arte in generale – è davvero perentorio non poter riflettere onestamente sulla possibilità di una creatività dalla natura computazionale, fatta solamente di uni e di zeri?